Non meriti le mie lacrime

– Non dimenticarlo, Marina: senza di me, non saresti diventata nessuno – disse la madre, fermandosi i capelli con una forcina d’ambra. – Ti ho cresciuta tra le mie braccia, ti ho trovato un marito buono, ti aiuto con la bambina… e tu?

Marina lavava i piatti in silenzio. Le sue mani lavoravano meccanicamente, ma dentro tutto si stringeva in un nodo d’asfissia. Sapeva che stava per iniziare un’altra lezione su quanto fosse incapace.

– E del tuo lavoro nemmeno parliamo. Chi diventa contabile dopo la facoltà di lettere? Vergogna. Avresti potuto insegnare, come la figlia di Lucia, la mia amica. Ma tu…

Marina non rispose. Aveva imparato a tacere da tempo. Il silenzio era il suo unico scudo. Se provava a ribattere, tutto diventava una tempesta. Sua madre sapeva come colpire con le parole.

La famiglia viveva in un trilocale vecchiotto alla periferia della città: Marina, suo marito Luca, la figlia di sei anni Sofia e sua madre, Rosalia. Dopo la morte del padre, Marina aveva insistito perché la madre venisse a vivere con loro. All’inizio sembrava una buona idea: la nonna vicina, più aiuti con Sofia, più tempo per lavorare.

Ma presto Rosalia occupò ogni spazio. Comandava in casa, commentava ogni gesto e, ai suoi occhi, persino il tè preparato da Marina era “sbagliato”.

Luca sopportava. A volte scherzava, a volte spariva per ore in garage. Era un uomo semplice, buono, un po’ stanco. Senza pretese, ma con calore. Marina lo amava, ma quel calore si allontanava ogni anno, come se tra loro si frapponesse qualcosa di freddo. E quel “qualcosa” sedeva in cucina, in vestaglia fiorita, a spiegare come dovevano andare le cose.

Tutto cambiò dopo la chiamata dal medico. La salute di Rosalia peggiorava: mal di testa lancinanti, confusione, nausea. La diagnosi confermò il peggio: un glioblastoma inoperabile. I medici parlarono di “pochi mesi”, forse un anno con fortuna.

Marina non pianse. Si bloccò. Poi si mise in moto come un automa: analisi, cliniche, consulenze. Trasferì gli incontri di lavoro, chiese al capo di lavorare da remoto. Lui accettò. Anche Luca si adattò. Persino Sofia sembrò capire che la mamma ora faceva tutto da sola.

Rosalia, invece, non cambiò molto. Criticava l’infermiera, rispondeva male ai dottori, lamentandosi che la minestra non era come la sua. Solo a volte, quando credeva di non essere sentita, sospirava nel cuscino di notte.

Un giorno Marina cercava una coperta nell’armadio e trovò una scatola da scarpe. Dentro, lettere. La maggior parte erano per lei, ma scritte da altre mani.

La prima iniziava con:
“Marì, ti aspetto. Riciamerò, non credo tu sia sparita così. Tua, Giulia.”

Giulia. La sua amica del liceo, la più cara. Quella con cui sognavano la Francia, una libreria, scrivere storie. Non avevano litigato; semplicemente, un giorno, tutto finì. E Marina credette che fosse Giulia a tagliare i ponti.

Altre lettere erano di Giulia, una da un datore di lavoro: un’offerta di stage a Milano. Marina riconobbe la busta: ne aveva ricevuta una identica anni prima, ma… vuota. Allora pensò a un errore.

Un’altra lettera era di Luca, prima del matrimonio. Parlava di trasferirsi a Trieste, aprire un’attività, vivere vicino al mare. Marina non l’aveva mai ricevuta. Pensò che lui avesse cambiato idea.

Si sedette a terra, le lettere tra le mani. Il mondo si inclinò.

Non erano errori. Era sabotaggio.

Sua madre le aveva intercettate. Nascoste, forse distrutte. Nella mente di Marina tornavano le frasi:
“Quella Giulia è una falsa, ti abbandonerà!”
“Luca? Ma dove vi porterà, senza di me?”
“Uno stage? Truffa. Vuoi lavare i piatti a Milano?”

E lei ci aveva creduto.

Marina restò con quelle lettere tutta la sera. Poi andò in cucina, di fronte a Rosalia. La verità ormai era scoperta.

– Ho trovato le lettere. Di Giulia. Di Luca. Quella di Milano.

Rosalia non si scompose. Sbuffò:

– E allora?

– Le hai nascoste?

– Certo. Vedi, non saresti capace di scegliere. Quella Giulia è una serpe, Luca non ha spina dorsale, e a Milano ti avrebbero ingannata. Ti ho protetta!

– Non era protezione. Era controllo – disse Marina piano. – Mi hai rubato la scelta.

– Sono tua madre! So io cos’è meglio!

– Volevi che restassi con te. Sempre. Sotto controllo. Hai mentito anche al papà, vero? Hai rovinato tutto. La mia vita.

– Sciocchezze! Senza di me saresti perduta!

– E non pensi che sia con te che mi sono persa? Ho perso tutto ciò che potevo essere.

Rosalia tacque un attimo. Nei suoi occhi passò qualcosa: paura, o vuoto. Poi si appoggiò alla sedia e sussurrò:

– Avevo paura di restare sola.

Una settimana dopo, Marina traslocò. Prese un appartamento in un altro quartiere. Luca la aiutò, Sofia iniziò un nuovo asilo. Lui la strinse quando scoppiò in lacrime su una scatola di libri.

– Ricostruiremo tutto, capito? Ma alle nostre condizioni.

Rosalia morì quattro mesi dopo. Marina continuò a visitarla, portarle cibo, controllare l’infermiera. Ma dentro era diversa. Non più una bambina in cerca d’approvazione, ma una donna che finalmente viveva.

Al funerale c’erano poche persone. Due vecchie vicine, l’infermiera che Rosalia insultava. Nessuno disse “era buona”. Solo: “Donna di carattere”.

Marina non pianse. Stette con Sofia per mano, guardando il cielo grigio. Silenzio. Il primo vero regalo di sua madre.

Un anno dopo, una lettera di Giulia. Un numero di telefono e un messaggio:

“Ti ho sempre aspettata. Se sei pronta, ci sono.”

Marina guardò a lungo lo schermo. Poi compose il numero.

– Giulia?

– Marina? Non ci credo! Sei tu?

– Sono io. Finalmente. Di nuovo me stessa.

Quella sera, Marina era sul balcone. Luca giocava con Sofia. Ascoltava le risate, beveva tè verde e guardava un piccione sul tetto. Aprì le ali, come a ricordarle: puoi volare, anche se ti hanno tenuta in gabbia.

Rientrò al suonare del telefono.
– Allora? – la voce di Giulia, sicura come un tempo, ma più dolce.
– Non credo sia vero.
– Credici. Sono io. Quella vera. Finalmente libera.

Parlarono per ore. Rise, ricordò gli anni dell’università. Giulia le confessò:
– Credevo mi avessi cancellata. Invece eri solo… prigioniera.
– Di mia madre – sospirò Marina. – Ma ho trovato la chiave.

Passarono settimane. Marina sorrideva senza motivo. Riprese a leggere, a scrivere storie la sera. Sofia sembrava più serena. Persino Luca rideva di più.

– Sei cambiata – le disse una volta, preparando il caffè. – Come se ti fossi slegata.
– Forse. Finalmente sono io.
– Mi piace – l’abbracciò. Ma nei suoi occhi c’era un’E quella sera, guardando le stelle mentre Luca e Sofia dormivano, Marina capì che anche i dolori più profondi possono diventare ali, se impari a usarli.

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