**Tramonto di un amore, alba di una carriera**
Silenzio a due
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— Me ne vado, Matteo. E non provare a fermarmi. — Giulia stringeva tra le dita un vecchio pennello con l’impugnatura consumata, quasi fosse un talismano. Alle sue spalle, sul cavalletto, un dipinto incompiuto si asciugava: un tramonto scarlatto, strappato da pennellate scure.
— Te ne vai? E dove? Dai tuoi colori e pennelli? — Matteo rise, ma nella sua voce c’era solo rabbia. — Senza di me non sei nessuno, Giulia. Nessuno. Chi vorrà mai la tua robaccia?
Lo guardò: l’uomo che un tempo le aveva promesso le stelle, e ora le rubava perfino la luce. Il suo volto, un tempo familiare, ora le sembrava estraneo, deformato dal disprezzo. Giulia inspirò profondamente, sentendo la determinazione scorrere nelle vene, e uscì sbattendo la porta. Il vento le accarezzò i capelli, e nel petto sentì ardere qualcosa di nuovo: la libertà.
***
La mattina nel loro paesino profumava di rugiada, erba appena tagliata e il fumo dei camini vicini. Giulia si svegliò al canto degli storni e guardò d’istinto il cavalletto in camera. La tela vuota la fissava in silenzio, come un vecchio amico tradito. Quel giorno Matteo aveva promesso di portarla a una mostra a Firenze, e lei sorrise, ricordando le sue parole di due anni prima.
— Sei un talento, Giuli — le aveva detto, abbracciandola nel loro piccolo monolocale. La luce della lampada illuminava i suoi schizzi sparsi sul tavolo. — Ti aiuterò a mostrarlo al mondo. Brillarai.
Ci aveva creduto. Fino a quando quelle promesse non si erano sciolte in rimproveri: «Basta perdere tempo con queste schifezze», «Pensiamo alla famiglia», «A chi interessano i tuoi scarabocchi?». Ogni parola era una macchia su una tela bianca, e Giulia aveva iniziato a nascondere i pennelli in un cassetto.
— Buongiorno, dormigliona — entrò Matteo, già impeccabile nella camicia stirata, profumato di colonia costosa. — La colazione è pronta, sbrigati. Mia madre ci aspetta per pranzo.
— E la mostra? — si sedette sul letto, aggiustandosi i capelli biondi ancora sciolti.
— Che mostra? — aggrottò la fronte, allacciandosi la cravatta. — Giulia, abbiamo da fare. Mia madre vuole parlare della ristrutturazione, e io devo passare in ufficio. Un’altra volta, no?
— Ma avevi promesso… — la sua voce tremò, ma tacque vedendo la sua espressione irritata.
— Non iniziare. Ne ho abbastanza dei tuoi capricci — borbottò, uscendo e lasciandosi dietro una scia di profumo.
Annuì a se stessa, ingoiando la delusione. Era sempre così: «un’altra volta», «dopo», «non ora». I suoi sogni si dissolvevano nei suoi piani, come acquerelli sotto la pioggia. Si alzò, infilò un vecchio maglione e andò in cucina, dove il caffè e i toast di Matteo erano già freddi. Persino le sue attenzioni ora sembravano meccaniche, un dovere senza anima.
***
Giulia era cresciuta in una casa dove l’arte era considerata una perdita di tempo. La loro casetta di legno ai margini del paese scricchiolava e odorava di umido. Sua madre, stanca dai turni in fabbrica, ripeteva: «Con i disegni non si mangia». Suo padre, sempre impegnato a riparare macchine arrugginite, si limitava a scrollare le spalle quando lei gli mostrava i suoi schizzi.
— Giulia, ancora con i tuoi scarabocchi? — la madre sbucò nella soffitta, dove la bambina di dieci anni se ne stava con l’album, strofinandosi le mani sul grembiule. — Dovresti sbucciare le patate.
— Non sono scarabocchi, mamma — rispose piano, nascondendo il disegno di un tramonto visto dalla finestra. — Sono io.
La madre sospirò e se ne andò, borbottando qualcosa su «fantasie». L’unica che vedeva del talento in lei era la sua insegnante d’arte, la signora Bianchi. Una donna anziana con capelli grigi e sciarpe colorate che correggE ora, mentre il sole tramontava sul Arno, dipingendo il cielo di rosso e oro, Giulia sorrise sapendo che la sua vita era finalmente un capolavoro tutto suo.