Caro diario,
questa sera la pioggia ha lavato le strade di Milano, cancellando le tracce di rossetto che ancora si aggrappavano alle lacrime sul mio volto. Appoggiata al bastone, stringo una borsa di tela consumata e un mucchio di schizzi accartocciati: tutto ciò che mi è rimasto dopo che la matrigna mi ha cacciata di casa.
Dietro di me, la voce agghiacciante di Giulia echeggiava nella tempesta. «Fuori! Non darò da mangiare a un parassita menomato». Un lampo ha illuminato la mia figura fragile mentre lottavo sul selciato scivoloso. Nessun tetto, nessuno che mi chiamasse più figlia, solo la flebile speranza che Dio vegli ancora su di me. Un vetro rotto per terra ha mescolato la pioggia al sangue del mio ginocchio. Nelle mani tremanti ho tenuto un disegno bagnato: un vestito ricamato di fili doro.
«Mamma, queste crepe brilleranno mai di nuovo?», ho sussurrato, senza sapere che quella notte tempestosa avrebbe segnato linizio di un incontro che avrebbe cambiato la mia vita e avrebbe fatto risplendere il mio nome. Dovè che mi osservi? Milano, Napoli o Roma? Scrivi la tua città nei commenti, così Fiabe Nere TV saprà che stai leggendo la mia storia.
Le mattine a Palermo hanno sempre profumato di cannella, di fiori e del sudore dellamore. In una piccola casa del quartiere San Lorenzo, si sentiva il ronzio costante di una macchina da cucire mescolato al canto sommesso di Nonna Rosa, una donna di origine nigeriana che aveva intrecciato la sua vita intera con pazienza e fede.
«Ogni punto è una preghiera, tesoro», mi diceva mentre guidava lago attraverso il tessuto. «Fai con il cuore, non con la paura». La casa era minuta ma piena di risate. A otto anni già tagliavo stoffa; a nove ricamavo il mio nome con filo doro sulle borse che la mamma confezionava.
Al mio fianco, mio padre, Luca Bianchi, camionista di lunga distanza, tornava a casa col profumo di olio motore, di vento e con un piccolo regalo per la sua piccola principessa del cucito. La vita era semplice, ma colma di fede.
Una domenica, mentre Nonna Rosa cuciva il suo abito da chiesa, le mani tremavano leggermente, il sudore scendeva sulla fronte. «Mamma, stai bene?», le chiesi posandole una mano sul braccio. «Solo un po stanca, cara. Continua a cantare i canti». Ma mentre iniziavo a cantare, lago le scivolò dalla mano e cadde a terra. Quel giorno il sole sembrò fermarsi alla finestra. Il dottore diagnosticò a Nonna Rosa una patologia cardiaca e le ordinò riposo.
Eppure, anche malata, continuava a sedersi al suo tavolo da cucito, ricamando paramenti sacri. «Il Signore mi ha dato queste mani», diceva. Io le portavo acqua, medicine, asciugavo il sudore. «Mamma, per favore, smetti di lavorare», imploravo. Lei sorrise debolmente, appoggiando la mano tremante sul mio viso. «Devi imparare a lavorare anche nel dolore, perché a volte la luce arriva dalle crepe».
Una mattina di silenzio innaturale corsi nella sua stanza. Nonna Rosa era distesa, gli occhi dolcemente chiusi, le labbra ancora incurvate in un sorriso tenue. Sul tavolo accanto a lei giaceva un braccialetto di legno spezzato in due. Rimasi ore in silenzio, stringendo il braccialetto, sussurrando tra le lacrime: «Mamma, continuerò a cucire i tuoi sogni». Da quel giorno la casa sembrò più grande, ma più vuota.
Mio padre sospese il lavoro per stare con me. Ogni mattina mi preparava il caffè, la colazione, tentando di colmare un vuoto che non si potrebbe colmare. Il dolore non scompare; si fa solo più silenzioso. Un anno dopo Luca dovette tornare alle sue strade. Prima di partire, strinse una mano contro lo specchio e mormorò: «Papà deve lavorare per mantenere questa casa, piccola. Rimani forte e ricorda le parole della nonna». Annuii. Rimasi a casa, disegnavi, ricamavo, tenendo vivo linsegnamento di Rosa. La casa perse la sua musica, ma i miei disegni fiorirono di colori, ogni vestito un sogno di madre.
Fu allora che comparve Giulia Ferrara. Luca la incontrò in una stazione di servizio in Puglia. Aveva un sorriso caldo, occhi brillanti e una voce dolce. «Sei un camionista, deve essere solitario», le dissi. Giulia mi raccontò di lavorare in un salone di bellezza e di occuparsi di sua madre malata. Luca riconobbe in lei la gentilezza di Rosa. Dopo pochi mesi si sposarono in una cerimonia intima.
Io, allora quattordicenne, indossavo labito blu di mia madre, stringendo un mazzo di fiori appassiti, osservando Giulia entrare nella nostra casa. Allinizio sembrava affettuosa. «Chiamami Mamma V, cara», diceva, intrecciando i miei capelli, cucinando, raccontando storie. Luca era al settimo cielo. «Guarda, tesoro, Dio ci ama ancora». Ma lamore fasullo ha il suo odore, come il miele intriso di veleno.
Una sera, Luca partì per un viaggio di tre settimane. Giulia cambiò in un batter docchio. «Fai i piatti, lava i piatti, non toccare il mio trucco». Obbedii in silenzio. Un giorno, per errore, rovesciai qualche piatto. Giulia mi colpì duro. «Pensi che la tua menomazione ti renda speciale?». Cadde il mio bastone al suolo. «Non volevo», sbuffò. «Stai zitta», ringhiò. «Sei solo un peso. Senza di te tuo padre sarebbe felice». Quella notte nascosi il braccialetto rotto sotto il cuscino, le lacrime inzuppavano il viso.
Nei giorni successivi Giulia si mostrava la perfetta matrigna al telefono. «Azzurra sta bene, tesoro. Studia tanto», diceva a Luca. «È brillante», aggiungeva. Poi mi ordinava di pulire, cucinare, fare le commissioni. Un giorno, usando il mio cellulare, Giulia chiamò unamica. Quando riottenni il telefono, vidi una somma prelevata dal conto di mio padre. «Ho usato un po per pagare le spese ospedaliere della tua madre morta», mi rispose con un sorriso freddo. Non dissi nulla.
Credo ancora che Dio mi osservi. Una sera destate, la pioggia batteva contro la finestra. Giulia mi fissava dallo specchio e disse: «Pensi che non sappia che disegni vestiti? Un menomato che sogna di diventare stilista, patetico». Il mio quaderno era strettamente stretto nelle mani tremevoli. «Questo è il sogno di mia madre. Non lo posso abbandonare». Giulia lo strappò, ne strappò le pagine, le lanciò nella spazzatura. «I sogni non comprano il pane, bambina inutile». Restai immobile, osservando la pioggia colpire il vetro, il cuore in frantumi.
Quella notte recuperai i disegni bagnati, li pressai tra due vecchie Bibbie e giurai: «Può portarmi via tutto, ma non mi farà smettere di cucire». Alcune settimane dopo Luca tornò a casa. Giulia lo accolse con musica, cibo, un sorriso dipinto sul volto. Io rimasi in cantina, il bastone a toccare piano il pavimento. Luca mi accarezzò la testa: «Papà è a casa, tesoro. Non sei felice?». Finsi un sorriso. «Sì, papà». Quella sera Giulia fingeva di dormire sul divano mentre Luca sussurrava: «Starò più a lungo a casa». «Andiamo allesposizione di moda a Milano?», dissi. Giulia, fingendo di dormire, aprì gli occhi, la rabbia ribollente nel buio.
Il mattino successivo, Luca ricevette una chiamata urgente: una spedizione doveva essere consegnata in anticipo. «Tre giorni, va bene?», chiese. «Poi andremo a Milano». Io annuii, ma il petto si fece freddo, come se laria stessa avesse un avvertimento. Quando la porta si chiuse, Giulia lanciò la tazza a terra. «Senza di lui non sei nulla». Il mio viso si abbassò. Giulia afferrò il mento e disse: «In questa casa non cè posto per due donne». Il pomeriggio seguente il cielo si aprì in un temporale.
Seduta al tavolo da cucito, ricamavo il vestito Radici e Ali che mia madre aveva sognato. Giulia entrò con una busta: «Ho prelevato il denaro dellassicurazione. Non ti resta più nulla». Rimasi immobile, incredula. «Non puoi fare questo», protestai. Giulia rise, «Capirai quando sarai fuori da casa». Aprì la porta, sbatté la mia borsa fuori, gridando: «Fuori! Vai a cucire i sogni per strada». La pioggia scrosciava a dirotto. Con il bastone in mano e la borsa che conteneva solo metà del braccialetto e qualche schizzo, mi incamminai per le strade di Milano. Non sapevo che, al termine di quello vicolo, un uomo di nome Alessandro Moretti mi osservava.
Quella notte il destino iniziò a girare. Un uomo che fingeva gentile ma nascondeva un cuore oscuro mi guardò. Allalba, la luce filtrò attraverso le finestre di quella casa milanese, un tempo chiamata casa. Ora ogni raggio sembrava freddo. Dentro, Giulia sedeva su una sedia, tazza di caffè in mano, le labbra dipinte di rosso scuro, gli occhi fissi allo specchio. «Finalmente non cè più nessuno che mi ostacoli», mormorò. Fuori, io tremavo, cercando di raccogliere la borsa gettata giù per gli scalini. I vicini mi guardavano e si giravano. Erano abituati alle grida di Giulia e alla ragazza menomata che sedeva silenziosa sulla porta del portico. Nessuno sapeva che la notte precedente, mentre la pioggia annegava il mio pianto, avevo percorso la lunga strada fino alla stazione degli autobus per cercare riparo.
Ora volevo tornare solo per una cosa: il braccialetto di legno che apparteneva a mia madre. Spinsi la porta, ma Giulia era già lì. «Cosa fai tornare, parassita?», mi chiese con voce di acciaio. «Voglio solo il braccialetto di mia madre». Giulia sorrise, allungò la mano, «Ah, quel cosetto economico». Senza esitazione, strinse il braccialetto. Scattò un suono secco, come un cuore che si spezza di nuovo. I perline caddero a terra, rotolando verso i miei piedi. «Allora ricucili, se sei così talentuosa», disse, allontanandosi con i tacchi che battevano come tamburi funebri.
Mi inginocchiai, raccogliendo ogni perla, le mani tremanti. Non piansi più. Sussurrai: «Signore, se mi ascolti, non lasciare che il mio cuore diventi pietra». Dopo essere stata scaraventata fuori, affittai una piccola stanza sopra una panetteria a Edgewood. Il soffitto era basso, il tetto perdeva, ma cera una piccola finestra che dava su il cielo. Sopravvissi con laiuto dellassistenza sociale e vendendo i miei schizzi al mercato delle pulci.
Una notte, mentre disegnavo, un vento trasportò il foglio fuori dalla finestra. Corsi a recuperarlo e, proprio in quel momento, Alessandro si fermò di nuovo davanti al mio negozio, una SUV nera parcheggiata davanti. Un uomo alto, in un completo grigio, con occhi calmi e accoglienti, scese e raccolse il foglio. «Hai lasciato cadere il sogno», disse. Io, sorpresa, risposi: «Grazie. Non pensavo che ti ricordassi». Alessandro sorrise: « Ti ho visto quella notte sotto la pioggia. Non tutti si aggrappano al disegno invece di al cappotto». Mi chinai, timida. «Questi schizzi sono tutto ciò che mi resta».
Mi chiese: «Hai un posto dove stare?» «Ho un piccolo appartamento sopra la panetteria», risposi. Alessandro estrasse una carta doro dalla tasca: Alessandro Moretti, CEO di Radici e Ali Atelier. «Se vuoi, vieni a trovarmi domani. Cerco qualcuno che veda il mondo diversamente». Quella notte lottai tra speranza e paura, chiedendomi se fosse una trappola o un regalo divino.
Al sorgere del sole, presi gli schizzi intatti, sistemai il vestito, affrontai lo specchio. Il ragazzo che mi guardava era sottile, ma gli occhi avevano una piccola fiamma costante. Mi avviai verso Radici e Ali, un edificio di vetro nel centro di Milano. Il guardiano mi scrutò, dubbioso. «Ho un appuntamento con il signor Moretti, ho la sua carta doro». Dopo averla mostrata, il guardiano annuì. Al quinto piano il profumo di nuovo tessuto, macchine da cucire e lavanda riempiva laria. Sulle pareti erano ritratti di donne nere in abiti orgogliosi. Una donna anziana, capelli dargento, era in piedi accanto al tavolo da taglio: Evelyn Conti, veterana stilista.
«Vieni a imparare o a chiedere lavoro?» chiesi. «Voglio solo lavorare, farò qualsiasi cosa», risposi. Evelyn lanciò un filo di tessuto verso di me. «Cuci questa linea dritta. Non essere veloce, sii onesta». Sedetti, le mani tremanti ma ferme, e lago penetrò il tessuto lentamente, punto dopo punto. Dopo qualche minuto, Evelyn annuì. «Non male. Le tue mani tremano, ma il tuo cuore è stabile. È raro». Alessandro entrò, sorpreso. «Davvero sei qui», disse, felice. «Sì, voglio provare. Non ho credenziali, ma ho fede», risposi. «La fede è quello che assumiamo di più qui», affermò.
Mi assegnò un compito: disegnare un vestito che permettesse alle donne imperfette di sentirsi belle. Una musa specchiale sopra la pagina, linee curvanti che divenivano una lunga gonna, un corpetto morbido, i bordi rifiniti con filo doro. Evelyn guardò oltre la spalla, mormorando: «Che bello, stai ricucendo il tuo cuore». Mentre riscoprivo lo scopo, Giulia, fuori città, urlava al telefono con una amica: «Ho visto la ragazza. Lavora da Radici e Ali». Giulia balzò. «Che? Non è possibile! Cè una foto online». Aprì il telefono, vide una foto di me accanto a Alessandro. Il suo sorriso svanì. «No, non può essere più felice di me», pensò.
Una notte, Giulia scoprì di nuovo il conto di mio padre e prelevò i soldi dellassicurazione. Chiamò il suo amante, Marco, «Ho i soldi, tesoro. Andiamo via». Nel frattempo, io, al lavoro, continuavo a disegnare, a cucire. Alessandro spesso passava a chiedermi: «Dormivi bene?», «Sì, ma mi sento in pace». RacNel silenzio di quella notte, ho capito che la luce che cercavo era sempre stata accesa dentro di me.





