Era strano, non che mi dispiacesse Vittoria, ma non riuscivo a considerarla mia figlia. Chi mai avrebbe potuto essere un padre per lei? Non aveva mai avuto un padre, e neppure io, quel “zio Federico che mangia l’orso”, ero destinato a essere suo padre. Però, per il bene di Giorgia, fin da subito mi sforzai di nascondere il mio malcontento. Aveva già undici anni, capiva che a lei voleva una famiglia, qualcuno che si prendesse cura di lei. Federico non era male, solo muto, ma estraneo. Non lo degnava nemmeno di uno sguardo. Eppure non beveva, come il padre di Cinzia, sua lontana cugina.
A me sembrò quasi non esistesse nemmeno questa figlia cresciuta di Giorgia. La presi per scontata, pianificando che Giorgia mi avrebbe dato un figlio maschio, magari due. Sposammo in fretta e in silenzio, ci scambiammo due appartamenti a favore di uno spazioso in cui Vittoria ebbe la sua stanza. Tra me e Vittoria ci fu solo una tregua tesa, non certo una vera armonia. Dopo la scuola, lei si chiudeva a chiave in camera, evitando il più possibile il tragitto verso di me. Anch’io non cercai di avvicinarmi di più.
Quando Giorgia cominciò a vomitare ogni mattina, a girargli la testa, tutti festeggiammo: gravidanza! Vittoria sognava un fratello, io un figlio. Invece arrivò sola la fragilità. Non fu una nuova vita a nascere, ma una malattia agghiacciante, un tumore al cervello. Così, a undici anni, Vittoria perse la propria famiglia e si avviò verso l’orfanotrofio.
Avevo iniziato a rimuginare sul suo futuro, assillato da un dolore troppo pesante, quando udii al piano di sotto Cinzia, ubriaca per il funerale, confidarsi con me: – Avrei potuto prenderla a casa mia, Giorgia è pur sempre mia cugina. Ma con Zinca ci scappiamo di casa una volta alla settimana… Non ce la farei. E di parenti non ne abbiamo altri.
Vittoria non voleva origliare, ma casualità mi fecero intuire che l’assistente sociale li avrebbe posta in orfanotrofio, se non avessi scongiurato ancora qualche giorno.
– Vittoria, dobbiamo parlare – iniziai quel mattino, senza fiato.
– Sì, non temere, so già che devo andare in orfanotrofio.
– No, volevo chiederti… vorrei adottarti io. Siamo sposati, dicono sia possibile, ma solo se tu sei d’accordo. So che non sarò un buon padre, ma non ti posso abbandonare. Non posso. Prova… per Giorgia, prova. Sono certo che la guarda, e soffre.
Non immaginavo che un uomo adulto potesse piangere. Federico non aveva versato neppure una lacrima al funerale. Immobile, sì, ma asciutto. Eppure… lo abbracciai, gli strofinai la testa come un ragazzino.
Tutto andò per il verso giusto. Chi sostenne chi negli inizi, non saprei dire, ma col tempo risanai. Imparavamo insieme a cucinare minestre e non solo. A parlare. Federico parlava poco, eppure Vittoria si abituò. A parte il ringraziamento, sentii crescere in me un rispetto per questo uomo giusto, che un paio di volte intercedette per lei nei cortili, che le portava per scherzo un gelato, o due biglietti per un film con Cinzia.
Qualche volta Cinzia si trascinava qui a fare la spesa o a dormire. Il dolore si spense. Vivemmo. Federico partecipava alle interclassi, metteva da parte soldi per la casa, mai chiedeva resoconti. Vittoria cercò di non deluderlo. Ma mai lo chiamò papà, né in faccia né dietro le spalle, sapendo per lei che per lui rimaneva un figlio estraneo.
Non fu nemmeno io a capirlo, ma qualcuno, in malo modo, glielo fece capire, piangendo di compassione.
Alla sua quattordicesima primavera, Federico si risolse a un altro discorso difficile. Gli stava crescendo un rapporto in ufficio con una donna, e presto avrebbe avuto un bambino.
– Potrei trasferirmi da lei, ma non sei abbastanza grande per stare sola. E l’assistente sociale ci pescherà. In due però è troppo stretto. Ha solo una stanza in alloggio di servizio. Se invece la presento qui… che dici? Ci sosteniamo?
Esternamente sì. Lidia si pavoneggiò per casa, col pancione, Federico sorrise di nuovo, Vittoria si aggiustò le rotte. Forse dentro di lei non corse mai il periodo adolescenziale, forse maturò presto con la morte di sua madre. Ma Lidia…
Vittoria attribuì a crampi e nausea le facezie di Lidia, non glielo dicevo a Federico come si cancellava il sorriso quando lui usciva per lavoro. Ogni gesto di Lidia urlava a Vittoria: “Ora sono io la padrona, tu sei nessuno.” Un “nessuno” per errore, per bontà di Federico che andava a sbattere ai piedi loro due.
Capiva Lidia che non avrei mai svelato i segreti, così non solo con fare, ma con parole accusò Vittoria di rovinare la loro casa. Viveva fastidi il lato estraneo, il figlio adottivo.
Tornò in gioco la vecchia tattica: mostrarsi il meno possibile. Federico rimase per anni in incognita finché non nacque Stas. Allora sì, iniziò a sospettare che Vittoria diritiesse. Lidia gli intonò tenero che un figlio adottivo offuscava il loro futuro. “Che ne sarà di lui quando compirà maggiore età? Mandiamoci via col denaro, mentre per noi è una missione morire per lui.”
A Federico non piacevano i confronti, muto di natura. Ma trovò un’argomento valido: batté pugno sul tavolo e disse. Basta. Mai più.
Voleva incontrarmi in un sabato di primavera a trovare Giorgia. Pulimmo tutto, rinfrescammo le piante. Sedemmo in silenzio sotto la volta verde e ci riconnettiamo, come quei primi mesi di lutto.
– Andrà meglio, Vittoria. Sopporta. Presto il riesce a scuola, Lidia inizia a lavorare. Non ci sarà tempo per queste sciocchezze.
Lidia non si arrese. In nome della salute di Stas, proibì a Cinzia di visitarci. Lontanò pure sua madre, prese in mano i conti. A Vittoria niente più accesso agli spiccioli. Persino per beni necessari doveva chiedere a Lidia, con imbarazzo.
Non le dissi niente a Federico, non volli dividerci le prime liti. Vederlo rilassato, col cuore di nuovo inesplicabile, mi piaceva. E…
Vidi quel luccichio nei suoi occhi quando stringeva Stas.
Federico però un giorno apprese che Vittoria si mangiava l’insalata a scuola. Aveva preso ottimo voto in inglese, lavorava in una sezione sportiva. Spesso rimaneva per l’intera giornata, affamata. La sua paga finì in un portafoglio di Lidia.
La maestra la chiamò:
– Dica a Federico, si prenda cura di Vittoria. Dovrebbe pesare poco più di una piuma! Presto sgombererà dal denaro. E non può rovinare la scuola per nuovi casi. Ha capito?
Quando Federico capì di aver trascurato l’accountazione, si martellò da solo e rimproverò Vittoria per il silenzio.
– Mi scusa, piccola. Mi sono sentito un inetto. E tu perché non apri bocca? Hai pure il tuo conto. Tutte le tue tutele li deposito lì. Non dobbiamo toccare quei soldi. Tu hai di fronte diritto all’università, al matrimonio. Ti farò attivare una carta… caricherò la paga. Okay?
Vittoria non ascoltò, si confuse tutta di soldi, di carte. Le parole più forti erano “figlia.” Forse davvero non era più un bambino adottivo per lui, se si rovinò per lei. Non per Lidia, non per Stas, ma per lei?
Oh, urlò Lidia quando colpì il suo budget da Vittoria. Voleva un fondo comune, lamentava indignata che tutto spariva come nebbia. Non importa come tralasciò per un viaggio. Ma come no? Devi vestire questa, scarparla. E lui ti genera!
– Resterò in ferie, e in viaggio. Noi… riesco a pagare.
– Io ho bisogno di mare!
In liti silenziose passarono anni. Lidia provò di intralciare Vittoria, Federico si eresse muraglia. Vittoria soffrì, saperesi responsabile per le litigate di casa.
Qualcosa riscaldò: stavamo progettando un futuro, lauree, in affittanza. Il padre di Cinzia ormai era fuori di testa, assente da casa per settimane. Non si sapeva chi delle ragazze avesse una vita peggiore.
Ma il destino non permise né al sogno. Cinzia sposò subito dopo il diploma, quasi chiunque le offrì lavoro. Vittoria dovette riplanificare: studiare in un’università con alloggio fu il suo unico piano. Federico non mi sostenne, ma intuì che mi soffriva con loro. Calcolò prestiti, mutui, ma Lidia si oppose, urlando per una somma monetaria.
– Che le spetta? Cresciuta nella stanza di sempre!
La soluzione arrivò inaspettata. L’eredità di Federico: un alloggio bello, in altra regione. Là c’è l’Accademia di Servizio, dove Vittoria sognava insegne di lusso, ma non pensava potesse coprire spese.
Federico registrò l’alloggio in nome Vittoria, le consegnò un conto con abbastanza anni per pagare l’università. Lui l’accompagnò, a iscriversi, a sistemare. Sì, voleva veramente aiutarla, ma c’era un’altra ragione: Lidia non avrebbe mai preso quelle proprietà. Non volevo più stress.
Andò a salutare tutti i vicini, pochi in uno stabile umile. Chiese che la guardassero, che si prendessero cura. Non era mai andato ai negozi, temeva i dialoghi futili!
– Ti ha porto bene tuo padre, ragazzina – dicono le vicine.
– Sì, ha cuore d’oro.
A ogni matrimonio, ci sono momenti duri da trattenere le lacrime. Il mio fu il ballo con il padre.
Federico fece impazzire tutti gli ospiti quel giorno. Mia madre non volle registrarsi finché lui non arrivò. La sua auto rompeva, in autostrada. Un regalo. Non era neppure abituato a guidare. Ma ci riuscì.
Quel uomo silenzioso riuscì a fare ogni cosa a tempo.