…la divisa blu e il volto che riconobbi immediatamente. Era Stefano Cristofori — il vigile del quartiere del nostro palazzo.

Indossavo ancora luniforme azzurra, il volto familiare apparve subito: era Stefano Ricci, il vigile di quartiere del nostro palazzo. Non era solo: al suo fianco cera il guardiano del negozio, Marco, e la responsabile, una donna con i capelli raccolti in una crocchia ordinata e lo sguardo calmo ma determinato.

Signor, fermatevi! disse Stefano con voce ferma e ferma. Abbiamo ricevuto due segnalazioni di rissa in negozio. Signora, sta bene?

Annuii, anche se non mi sentivo affatto. Le ginocchia piegavano, mi appoggiai al bancone delle farine. Lui avanzò con le braccia drammaticamente alzate.

Ah, ecco la sceneggiatura! sbottò. Tutti corrono a difendere la vittima! Nessuno ha visto come abbia lasciato cadere i panini? Io solo

Basta! lo interruppe Stefano. Abbiamo sentito abbastanza.

Alla mia sinistra cera la donna con il bambino, testimone di tutto. Nella mano brillava il telefono. Non volevo essere ripresa, ma improvvisamente capii che forse quel breve video mi avrebbe salvata. Alcuni secondi di registrazione, qualche frase che non avrebbero più potuto negare.

Cancellala subito! ordinò lui, correndo verso di lei.

Il guardiano lo fermò con un passo netto, bloccandogli la via. La responsabile sospirò profondamente.

Signor, uscite dal negozio o chiamo un altro pattuglia. La signora è incinta, non è uno scherzo.

Misi le mani sul ventre. Il bambino si dimenava dentro, come un uccellino spaventato. Vorrei averle detto: non temere, mamma ti proteggerà. Ma non riuscivo a parlare. Guardavo quelluomo e, per la prima volta, non vedevo il marito con cui convivevo, ma uno sconosciuto che si divertiva a ridurre in polvere la mia dignità.

Hai sistemato tutto! sibilò lui. Il vigile, la donna col telefono cosa segue? Unambulanza fittizia?

Allimprovviso il dolore mi trafisse, acuto come una lama. Mi piegai a metà.

Acqua balbettai. Stefano mi fa male

Ambulanza! disse la responsabile premendo il pulsante sotto il banco. Siediti, signora, respira con me inspira espira

Lui mi osservò, il volto mutò. Per un attimo rimase immobile, poi fece un passo indietro, poi un altro.

Non parteciperò a questo teatro, sbottò. Me ne vado.

Si girò di scatto e spintonò il carrello. Il guardiano lo accompagnò alla porta. Stefano rimase accanto a me, si inginocchiò e pose le mani sulle mie spalle. Si avvicinò al mio orecchio e sussurrò:

Tranquilla. Sono qui. Non ti lascerò.

Scoppiai in pianto silenzioso. Dopo qualche minuto sentirono le sirene, poi il ruggito del carro dellambulanza che strisciava sul pavimento. Vergogna, paura e sollievo si mescolarono. Continuavo a ripetermi mentalmente: non cadere qui. non adesso.

Il pronto soccorso dellospedale San Giovanni. Luce bianca, accecante. Linfermiera, una donna anziana dagli occhi gentili, si chiamava Pina, mi pose una mano sulla spalla.

Contrazioni fasulle, disse con calma. I cosiddetti BrecstonHicks. Il corpo si prepara, ma lo stress che hai provato non è buono né per te né per il bambino.

Annuii, stringendo il lenzuolo per non tremare. Stefano era ancora lì, appoggiato al muro. Non so come sia arrivato, ma quando incrociai il suo sguardo, annuii appena: respira.

Vuoi che chiamiamo qualcuno? chiese Pina. La madre, lamica la moglie?

Chiusi gli occhi. La parola moglie mi trafisse. Non eravamo sposati. Lui rimandava sempre: Quando sistemerò il lavoro, Quando smetteremo di sprecare soldi. Ogni frase risuonava nella mia testa come il tintinnio di un campanello freddo.

No, sussurrai. Non voglio che venga.

Va bene, rispose dolcemente. È la tua decisione. Tornerò fra dieci minuti. Se hai voglia di piangere, piangi. È gratis.

Sorrisi tra le lacrime. Dopo che fossimo rimaste sole, Stefano trascinò una sedia e si sedette accanto a me.

Acqua? chiese.

Voglio semplicemente non sentirmi più piccola, dissi a bassa voce.

Allora traccia una linea. Piccola. Lamentela. No. Porta chiusa.

Lo guardai sorpreso.

Lamentela

Hai testimoni, annuì. E un video. Non è vendetta. È per farti non avere più paura di comprare il pane.

Piansi di nuovo, ma stavolta le lacrime erano diverse. Curative. Quando, dopo dieci minuti, Pina tornò, respiravo serena.

Rimarrai sotto osservazione per qualche ora, disse. Ti porto qualcosa da mangiare?

Pane integrale, risposi sorridendo.

Lei rise.

La sera ero sola a casa. Il telefono vibrava incessantemente:

Dove sei?

Scusa, sono agitata.

Sei pazza a chiamare la polizia?

Rispondi!

Per favore, rispondi!

Disattivai il suono. Accarezzai il ventre e sussurrai:

Imparerò.

La mattina, verso le dieci, ero già al pronto soccorso del distretto. Stefano non cera, ma il suo collega mi accolse. Una piccola stanza, odorosa di caffè e carta. Raccontai tutto. Firmai. Non esagerai, solo i fatti, le parole, la paura. Quando uscii, le mani erano umide, ma laria fuori sembrava più leggera.

Nel pomeriggio misi in borsa alcuni documenti, due vestiti, un biglietto per un concerto, una foto di mia madre. Le chiavi le lasciai sul tavolo, con un biglietto:

Non venire. Ho sporto denuncia. Se mi cerchi, la polizia ti troverà.

Non era una minaccia. Era un confine.

Bussai alla porta accanto. Maria, la pensionata del piano sopra, aprì subito.

Posso restare un po con te? chiesi.

Certo, cara, rispose, tirandomi dentro, accendendo il bollitore, tirando fuori una coperta, guardando il mio ventre e aggiungendo a bassa voce: Non vergognarti.

E non mi vergognai più.

Passarono tre mesi. Presi un piccolo appartamento a Milano Porta Romana. Un pomeriggio la responsabile del negozio, la signora Daniela, suonò al campanello. Teneva una busta. Senza parole la lasciò sul tavolo: pannolini, salviette umide e una confezione di pane integrale con un nastro rosso.

Unaltra volta venne la donna con il telefono, Irina. Raccontò che il video era stato consegnato alla polizia e che, se necessario, avrebbe testimoniato. Io sono Irina, disse, e sorridemmo come due donne che avevano attraversato la stessa tempesta.

Lui continuava a tornare: messaggi, fiori alla porta, una volta lo vidi aspettare allangolo. Ma i confini erano stati fissati: ordine restrittivo, poi prorogato. Non sparì, ma non poté più avvicinarsi.

E poi, in una fredda mattina di dicembre, tenevo fra le mani la creatura più piccola e più forte del mondo: la mia bambina, Anna. Nacque in fretta, con un pianto potente, arrabbiata per la luce. Pina sorrise, stanca:

È forte, disse. Che sia viva e sana.

Baciai la sua fronte. Profumava di latte e pane caldo. Poco dopo Stefano tornò. Non portò fiori, ma una piccola giacca da neonato e un biglietto:

Per le prime passeggiate. Se hai bisogno, bussa. Se non ne hai, portala fuori spesso.

Le settimane seguenti furono dure, ma vere. Notti insonni, pianti di bambino, stanchezza e gioia. Ogni piccola vittoria era un miracolo: quando si addormentava sul mio petto, quando la portavo al parco, quando sceglievo i panini senza paura.

Una mattina di sabato, dopo averla nutrita, la misi nel carrello e uscii. Laria odorava di inverno e di fumo dei camini. Allingresso, la nonna Maria batteva il tappeto.

Come si chiama la piccola? chiese.

Anna, risposi.

Bel nome, sorrise. Che il destino vi sia lieve.

Mi fermai. Guardai il supermercato allangolo: lo stesso, ma diverso. Persone spingevano carrelli, bambini chiedevano cioccolato. Il mondo girava, come doveva.

Il mio telefono vibra. Un breve messaggio: Voglio vederla.

Guardai lo schermo e, per la prima volta, non provai né paura né rabbia. Solo calma. Risposi con due frasi:

Parla con il mio avvocato. Ho scelto il silenzio.

Spinsi il carrello avanti. Anna fece un suono leggero, come un colombo.

Davanti alla panetteria lodore di pane caldo mi avvolse. Ricordai il giorno in cui i panini rotolavano per terra, le risate, gli sguardi della gente. Poi le mani di Pina, lo sguardo di Stefano, la gentilezza di Maria.

Imparerò, sussurrai alla figlia. Un tratto al giorno. Un no. E un sì per noi due.

Entrai in panetteria, comprai due panini integrali e li stringei tra le mani come due piccole luci. Quando uscii, un raggio di sole si rifletteva negli occhi di Anna. Mi fermai a guardarla. Era serena.

Anche io lo ero.

Finalmente.

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