Ettore quella notte mancò di nuovo a casa.
“Non eri qui, Ettore…” dissi con voce piatta, dentro però ribollivo come pentola sul fuoco.
“Lavoro, Ginevra, sai com’è l’ospedale… un’emergenza…”
“Un’emergenza?” Sghignazzai. “Allora perché la camicia odora di Chanel N°5 e alle tre di notte eri attivo su Instagram?”
Rimase zitto. Distolse lo sguardo. Il solito gesto: si strofinò il naso, sospirò, cominciò a tergiversare.
“Ti spiego tutto. Non iniziare. Adesso no, ok?”
Non inizia io. Pur avendo voglia di urlare, di scaraventargli la camicia addosso. Ma tacque.
Nove anni di matrimonio. Mutuo, Matteo in terza elementare, conto cointestato, l’abitudine del caffè a vicenda. Ma da sei mesi quel caffè lo preparavo solo io.
Lui spariva all’alba “per l’ospedale”, rientrava a notte. O “faceva turno”. Ma l’istinto urlava: non è un eroe in camice. È un bugiardo. E ha un’altra.
Il bollitore fischiava. Alla finestra, vedevo il vicino baciare la moglie prima di uscire, accarezzare la figlia. Un tremito d’invidia: e a me? Perché non ho questo?
I primi segni li persi. Fu sottile, da maestro: disattivò la geolocalizzazione – “il telefono lagga”. Niente più oggetti in bagno – “sterilità, sono chirurgo”. Il cellulare sempre stretto in pugno.
“Ginevra, non montarti la testa,” diceva. “Sai che ti amo quanto basta? Altre donne? Non ho nemmeno le forze per te.”
Mentre si lavava, presi il suo telefono. La password la sapeva pure il gatto, Leo. Ma le chat? Vuote. Cancellate, o usavano altro. Instagram? Solo calcio e pagine di chirurgia.
Ma non sono nata ieri. E non sono tipo da prendere in giro.
*Se non trovi la verità, cerca chi la sa.*
Quella verità poteva essere… suo fratello Federico, quello che Ettore “incontrava” sempre più spesso.
“Ciao, Chicco. Una domandina…”
“Oh, Ginevra! Tutto bene?”
“Eri con Ettore ieri sera?”
“Ehm…” esitò. “Beh… più o meno…”
Capisco. *Più o meno*. Ah.
“Chicco, niente giri di parole. Dammi una risposta: era con te?”
“No.” Sospirò. “Scusa, non copro più le sue bugie.”
Immobilità. Eccola, la verità.
“Quindi c’è un’altra donna?”
Federico abbassò gli occhi.
“Non proprio…”
“E allora?”
Esitò.
“Sei sicura di voler sapere?”
Sangue alle tempie.
“Parla. Ora. Subito.”
“Non è solo un’altra… Ginevra, ha una doppia vita. Alla Magliana… un’altra famiglia. Una donna. E… un bimbo. Tre anni.”
Gelida. Silenzio ovunque. I suoi sussurri sembravano ovatta in lontananza.
Un figlio. Ha un figlio.
Tre anni di menzogne. TRE ANNI. E io? Portavo Matteo a calcio, stiravo camicie, preparavo lasagne credendo fosse lavoro. Ingenua. Ridicola. Moglie premiata per stupidità.
“Dove abita?” Domandai a Federico, senza lacrime né tremori.
“Ginevra… non fare sciocchezze.”
“Dove. Abita.” Ripetei, fissandolo.
Cedette.
“Ha un bilocale alla Magliana. Affittato. Quando dice che sta da me… sta da loro.”
“Lei sa di me?”
“Certo. Ma… le ha detto che voi vivete come coinquiline. Che restate insieme solo per Matteo.”
Ah, *insieme*. Senti, Ettorino, vedrai cos’è stare “insieme”. Dentro ribollivo. Mi trattenni.
Quella sera cucinai come sempre. Matteo coi compiti, io che tagliavo insalata. Tutto finto idillio. Ma io ero già cambiata.
Quando Ettore rientrò, assaggiai la sua guancia – ora solo per osservare da vicino il traditore.
“Com’è andato il turno?”
“Stanco morto,” borbottò cenando. “Ragazzo con ulcera perforata… tragedia…”
“Ettoré… non devi andare dal tuo ometto di tre anni dopo cena?”
Immobile. Cucchiaio sospeso sulla minestra. Volto vuoto. Poi, una palpebra tremò.
“Cosa hai detto?” sussurrò.
“Quel che hai sentito. So tutto. Magliana. La donna. Il bambino. Le menzogne. Il tradimento.”
Appoggiò il cucchiaio. Silenzio.
“Ginevra… volevo dirtelo.”
“Quando? Venerdì? Oppure *dopo la pioggia di giovedì*? Quando tuo figlio mi chiamava chiedendo *perché papà non viene*?”
Taceva.
“Ettore, la verità: la ami?”
“Non so…”
“E me?”
Abbassò gli occhi, tacque.
Bastò. Quello sguardo *altrove*.
Quella notte insonne. Lui probabilmente pure. Traslocato sul divano. Il mattino dopo, preparai una borsa.
“Dove vai?” chiese.
“Io resto. Sei tu che te ne vai. Con i bagagli e le illusioni.”
“Resterai forte. Ce la farai.”
“Tu sei debole. Ed è comunque una liberazione.”
Due settimane dopo: telefonate, messaggi supplicanti.
“Matteo è mio figlio! Non mi vieti di vederlo!” urlò al telefono.
“Hai già tradito Matteo. Ora tradisci anche loro. Vai. Vivi con la tua *emergenza*: Claudia e
E mentre sorridevo a quel papà di Anastasia che mi raccontava dei suoi viaggi in Sicilia, dentro mi dissi che a volte per riaccendere la felicità bisogna sfogare tutta la rabbia ma senza mai tradire se stesse.