La figlia di un poliziotto caduto partecipa all’asta di un pastore tedesco la scioccante verità!
La fiera del distretto di Vallebianca era sempre un luogo rumoroso, appiccicoso e troppo grande per una ragazzina minuta e silenziosa come Ginevra Rinaldi. Il sole estivo bruciava la ghiaia, trasformando ogni alito d’aria in qualcosa di denso e luminoso. Le giostre ronzavano dietro i padiglioni delle bancarelle di carne. I venditori gridavano offerte di pop-corn caramellati e biglietti della lotteria, mentre dal padiglione principale proveniva il suono lontano di un martello. Lì, al centro dellevento più atteso della giornata, Ginevra, otto anni, non aveva pronunciato una parola da quel novembre in cui due uomini in uniforme erano apparsi alla fattoria, e il suo mondo era andato in frantumi. Sua madre, lagente Sofia Rinaldi, non cera più. “Caduta in servizio”, scrivevano i giornali, andata via senza lasciare spazio a domande o speranze. Da allora, la voce di Ginevra si era ritirata in un angolo del suo corpo che nemmeno lei riusciva a trovare.
Ma quella mattina, Ginevra si svegliò allalba con un dolore al petto più forte del solito. Si avvicinò subito al barattolo di vetro impolverato che aveva riempito con le monete, perché era abbastanza piccola per contenerle tutte. Dieci centesimi per il compleanno, quattro euro guadagnati vendendo limonata, i due euro che sua madre le infilava di nascosto come premio. Li contò due volte: cinquantadue euro e sedici centesimi. Infilò il tesoro nello zaino e attese alla porta.
Raffaella, la compagna di sua madre, cercò di dissuaderla: “Oh, Ginevra, tesoro, non devi andare a quellasta”, disse, inginocchiandosi con quegli occhi stanchi che un tempo erano così luminosi. “Non troverai quello che cerchi. Facciamo i pancake, va bene?” Ma Ginevra scosse la testa, lo sguardo fisso sullanello di Raffaella che luccicava alla luce del mattino. Quellanello doro ora sembrava sbagliato, troppo grande per il suo dito tremante. Nello, il patrigno di Ginevra, rimase in disparte, giocherellando con il telefono, cercando di non sembrare nervoso. Non sapeva come aiutarla dopo il funerale, se non con frasi come: “Dai, Ginevra, devi andare avanti, altrimenti non potrai vivere”. A volte lo odiava per questo. Altre volte non aveva nemmeno la forza di odiarlo. Partirono in silenzio, la vecchia Subaru di Raffaella sobbalzando sulla strada di campagna, ogni buca spingendo le mani di Ginevra. Quando arrivarono al parcheggio, Raffaella si chinò e sussurrò: “Qualsiasi cosa accada, ti voglio bene, capito?” Ginevra guardò le sue ginocchia, e lo sportello si chiuse con un colpo secco. Laria della fiera la colpì allistante: odore di pop-corn, fieno, sudore e metallo arroventato dal sole.
Nel padiglione, la folla si accalcava intorno alle panche di legno che circondavano un piccolo palco. Alcuni agenti in uniforme erano in prima fila, chiaramente a disagio. In un angolo, una gabbia di metallo con un cartello scritto a mano: “Asta del cane da soccorso ritirato dal servizio”. Ed eccolo lì: Rex, lunica cosa che a Ginevra sembrava ancora reale di sua madre.
Non un ricordo, non una foto, ma Rex, il cui muso era ora più grigio per letà, ma gli occhi ancora scuri e acuti. Stava seduto come se quel posto gli appartenesse, ma la coda si muoveva appena. Il suo sguardo percorse la folla, poi si fermò istintivamente su Ginevra. Un brivido le corse lungo la schiena. Per mesi, Ginevra si era sentita viva solo di notte, quando sussurrava a Rex attraverso il recinto della vecchia stazione di polizia, dopo che tutti se ne erano andati. Gli confidava cose che non avrebbe mai detto a nessun altro, segreti, il dolore che provava, e quanto desiderava che sua madre tornasse a casa. Rex non rispondeva, ma ascoltava, e bastava.
Il banditore, in un abito blu stropicciato, annunciò con troppa energia: “Oggi avete tutti la possibilità di possedere un pezzo di storia di Vallebianca! Il nostro Rex, che ha servito per cinque anni nella polizia, è in pensione da quando lagente Rinaldi ci ha lasciato. Cerca una nuova casa. Diamogli un po damore, va bene?” Ginevra strinse così forte il barattolo che il vetro le graffiò il palmo. Raffaella le posò una mano sulla spalla, ma lei si scostò. Osservò la folla: curiosi, forse gente del posto che ricordava sua madre, o semplicemente persone che amavano lo spettacolo. Ma in prima fila vide due uomini che non sembravano adattarsi. Uno era alto, con capelli grigi, una camicia bianca e un sorriso da lupo: Vincenzo “Vince” Forte, proprietario della Forte Sicurezza, un nome che Ginevra aveva visto sui cartelloni, sempre con lo slogan “Sicurezza di cui fidarsi”. Laltro era più rozzo, la camicia di jeans macchiata, il volto segnato dal sole e dalle rughe: Gerardo “Gero” Bianchi, un allevatore dallaltra parte della valle. Osservavano Rex





