L’ho salvato da un mondo perduto, ma ha trovato un altro amore. Il mio dono d’addio li ha distrutti.

L’ho salvato da quel mondo, e lui ne ha trovato un altro. Ma il mio regalo d’addio li ha distrutti.
— Ti lascio, Anna.

Queste parole, pronunciate con una voce piatta e distante, squararono il silenzio serale come un coltello.

La forchetta scivolò dalle dita indebolite di Anna e tintinnò sul piatto. La tavola impegnala, che aveva preparato per due ore, le candele… tutto si trasformò all’improvviso in una grottesca scenografia.

— Cosa?… Cosa vuoi dire? Sergio, che dici? — la sua voce si incrinò. — Abbiamo… superato tutto… io… E oggi è il nostro anniversario di matrimonio…

Aveva voluto che questa sera fosse speciale — dieci anni dal giorno del loro matrimonio. Solo per loro due. Una serata che doveva simboleggiare la fine delle difficoltà.

Dopo l’incidente, suo marito Sergio era cambiato — chiuso, assortito. Anna attribuiva tutto alla lenta convalescenza. Credeva che il suo amore e le sue cure avrebbero sciolto quel ghiaccio.

Ma ora lui non la guardava. Guardava sua madre, che era entrata senza invito nella loro casa.

Alessandra Petrovna, la suocera, raggiunva. Vestita come per una festa, con il rossetto sgargante sulle labbra sottili, si avvicinò e posò una mano possessiva sulla spalla del figlio. Non era venuta per una visita. Era venuta per l’esecuzione.

— Proprio oggi, l’anniversario! — la sua voce gocciolava veleno. — È il momento di finirla con questa farsa! Ho sempre saputo che mio figlio aveva bisogno di un’altra donna, degna di lui, non di un’infermiera-servetta!

Il cuore di Anna perse un battito. “Infermiera-servetta”… Era lei?

— E l’ho trovata! — annunciò trionfante Alessandra Petrovna, ignorando la nuora inebetita. — La figlia della mia migliore amica, Michela! Intelligente, bellissima, ha un appartamento nel centro di Milano! Non gli starà lì a ricordare le ‘minestre riscaldate’!

A quanto pare, tutto era già deciso. Mentre lei lottava per la sua vita, loro organizzavano incontri di nascosto. Gli trovavano una sostituta. Come un oggetto usato.

Sergio annuiva, concordando con ogni parola della madre. Nei suoi occhi non c’era né colpa né rimorso. Solo freddo disprezzo.

— Capisci, Anna. Quando ero lì, in ospedale, indifeso… avevo bisogno di te. Ma ora sono di nuovo in piedi. E ho bisogno di una donna che mi ispiri, non che mi ricordi la mia debolezza.

Fu la fine. Totale. Inappena bile. Una sentenza emessa da due persone care ed eseguita nel giorno del loro anniversario.

Come in un film muto, gli ultimi, più duri mesi della sua vita le sfrecciarono davanti agli occhi. Non una vita — una sopravvivenza.

Ricordava quella telefonata. Quella voce burocratica all’altro capo che aveva dato inizio al suo inferno personale: “Suo marito è stato coinvolto in un incidente, è in terapia.”

Poi l’ospedale. Corridoi bianchi infiniti, odore di disinfettante e disperazione. E il primo colloquio con il chirurgo stanco, che si era tolto la mascherina e si era passato una mano sulla fronte.

— Le sue condizioni sono gravi ma stabili — aveva detto, guardando da un’altra parte. — Abbiamo fatto tutto il possibile. Ora… le previsioni sono incerte. Dipende dalle cure. E dalla sua voglia di vivere.

“Da le cure.” Quella frase divenne la sua condanna e, insieme, la sua missione.

I numeri sul conto in banca si sciolsero come neve a marzo. Seduta nell’ufficio del primario, che con tono cortese ma fermo le spiegava che le cure senza costi erano finite e che per una vera terapia servivano soldi. Tanti soldi.

Lo stesso giorno andò dal banco dei pegni. Si tolse gli orecchini d’oro — l’ultimo regalo di sua madre — e li mise sulla bilancia. L’uomo dietro il bancone li soppesò.

— Signorina, è sicura? Sono un ricordo.

— I ricordi non lo faranno camminare — tagliò corto lei, prendendo le banconote sgualcite.

Poi andò la collana, il bracciale e infine l’anello nuziale, che dovette strapparsi via quasi con la pelle.

Quando non c’era più nulla da vendere, trovò un secondo lavoro. Di giorno commerciante in un negozio soffocante, di notte infermiera in un centro medico. Dormiva tre o quattro ore al giorno, imparando ad assopirsi sull’autobus.

Alessandra Petrovna arrivava una volta a settimana. Non per aiutare — per controllare.

— Perché ha quel pallore? Non lo nutri abbastanza! — sibilò mentre Anna lavava il pavimento della stanza.

— Il medico ha detto solo brodi per ora — rispose piano Anna.

— Il medico! Che ne sa quel medico! Con la tua faccia stanca lo finirai! Un uomo ha bisogno di tono, non dei tuoi sospiri!

E nessun aiuto economico. Mai.

Poi arrivò il fisioterapista. Un giovane robusto di nome Marco.

— Anna, è una maratona, non uno sprint — le disse mostrandole gli esercizi. — Ogni giorno. Anche quando fa male. Non lasci che si commiseri. La pietà è veleno.

E lei non glielo permise. Lo trascinò in bagno. Gli fece massaggi, gli stirò i muscoli intormentiti finché le sue dita non si indolenzirono. Lo insegnò a camminare di nuovo, anche quando si lamentava e imprecava. Gli leggeva ad alta voce per impedirgli di impazzire dal silenzio.

Le sue forze diminuivano, le sue tornavano. Lei dimagriva, mentre lui riempiva.

Aveva letteralmente soffocato la sua vita nella sua.

E ora lui era seduto davanti a lei. Forte. Sano. Pieno della sua energia — e la guardava come un posto vuoto.

Anna osservò lentamente i loro visi soddisfatti. Il sorriso della suocera — un ghigno vittorioso. L’espressione di Sergio — compiaciuta e fredda.

Si aspettavano lacrime. Scenate. Accusili.

Ma non ci furono lacrime. Dentro di lei tutto era bruciato, lasciando solo un vuoto gelido. E in quel vuoto nacque non la vendetta, ma il calcolo.

Anna non si alzò. Si raddrizzò — e quel movimento improvviso la fece sentire più alta di loro.

— Se è così… — la sua voce era calma, senza traccia di debolezza. — Prima del divorzio, voglio farvi un regalo d’addio.

Sergio sorrise scettico. Alessandra Petrovna sbuffò sprezzante. Probabilmente pensavano che avrebbe tirato fuori un vecchio album di foto o qualche cimelio sentimentaloide.

Anna andò in camera e tornò con una cartelletta trasparente. Per un anno aveva raccolto ricevute — prove della sua devozione.

La posò sul tavolo davanti a Sergio. Il colpo secco sulla carta risuonò nel silenzio.

— Cos’è? — chiese sospettoso.

— Apri.

Esitò, poi aprì. Sulla prima pagina — una fattura di una clinica privata con una cifra astronomica. Poi un contratto di finanziamento a suo nome. Decine di ricevute per medicine, fisioterapia, attrezzature. Tutto in ordine, calcolato.

I suoi occhi si fermarono sulla cifra finale, cerchiata in rosso. Una somma che toglieva il fiato. Il suo volto impazzili. Le mani, che poco prima parevano forti, tremarono.

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