Nuovi Arrivi

I Nuovi Vicini

Mentre si avvicinava al suo palazzo, Ginevra notò un uomo sconosciuto che spingeva delicatamente un bambino con uno zaino in spalla. Affrettò il passo ed entrò quasi subito dopo di lui.

“Chissà in quale appartamento vanno, non li ho mai visti prima,” pensò, salendo le scale un piano più indietro. Si fermarono al terzo piano, proprio di fronte al suo appartamento. L’uomo stava aprendo la porta con le chiavi.

“Buongiorno,” salutò Ginevra, avvicinandomi alla sua porta e tirando fuori le chiavi dalla borsa.

“Buongiorno,” rispose l’uomo, prima di scomparire dentro l’appartamento. Anche Ginevra entrò in casa.

“Nuovi vicini, dunque,” pensò. “Che tipo scontroso, ha appena fatto un cenno e basta,” borbottò tra sé, un po’ contrariata.

Tre mesi prima era morta la signora Anna Maria, che viveva in quell’appartamento. Era stata un’insegnante di scuola elementare, sempre gentile e disponibile, ma molto anziana e malata. Ginevra andava a trovarla di tanto in tanto, le faceva qualche commissione quando non stava bene, e bevevano insieme un caffè.

Senza aver visto bene i nuovi vicini, Ginevra passò la serata su internet e poi andò a dormire.

Il giorno dopo, essendo sabato, dormì fino a tardi e poi decise di fare la spesa. Uscì proprio mentre i nuovi vicini facevano lo stesso. L’uomo aveva una barba incolta, uno sguardo severo e capelli scuri. Stava chiudendo la porta, accanto a lui c’era un bambino piccolo, magro, di circa sette anni, che la guardava da sotto in su con occhi tristi.

Quando l’uomo incrociò il suo sguardo, Ginevra salutò, e lui rispose con un secco:

“Buongiorno.” Il bambino, invece, rimase in silenzio.

L’uomo prese il bambino per mano e scese le scale. Ginevra gli chiese:

“Siete i nuovi vicini?”

“Sì, siamo i nuovi vicini,” rispose lui serio, continuando a scendere.

“Non intendo insistere,” pensò Ginevra. “Non voglio essere invadente. Ma perché quel bambino non parla?”

Sapeva che i bambini della sua età erano di solito vivaci e chiassosi. Lavorava in un negozio vicino casa, e i ragazzini dopo scuola ci entravano spesso, chiassosi come passeri. Le sembrava strano che il vicino al contrario fosse così chiuso. Forse non si era ancora abituato al trasloco.

“Ma dov’è sua madre?” si chiese. “Non l’ho mai vista, vanno sempre solo loro due.”

Le vennero in mente pensieri strani e persino inquietanti, come l’idea che l’uomo avesse rapito il bambino. Ma cercò di scacciarli, decidendo che col tempo tutto si sarebbe chiarito.

Passò circa un mese, e incrociò raramente i nuovi vicini. Una sera, però, bussarono alla sua porta. Guardando dallo spioncino, vide l’uomo. Aprì e lo fece entrare.

“Buonasera,” disse lui educatamente. “Scusi il disturbo a quest’ora, ma non conosco nessuno qui, e mio figlio Matteo ha la febbre. Non so cosa fare. Avrebbe un termometro? Ah, io mi chiamo Davide, e lei?”

“Ginevra,” rispose, invitandolo in cucina.

Prese una scatola con i medicinali, tirò fuori un termometro e delle pastiglie per la febbre, mettendoli in un sacchetto.

“Domani mattina chiamate il medico,” disse. Davide annuì.

Il suo viso non era più così severo, e si vedeva che era preoccupato e un po’ imbarazzato per aver chiesto aiuto.

“Grazie, glieli restituirò. Non ho mai fatto da solo da infermiere a mio figlio. Se avrà bisogno di qualcosa, mi dica.”

“Aspetti,” disse Ginevra, porgendogli un piatto con mezza crostata di mele che aveva appena sfornato. “Porti questo a Matteo, che si riprenda, e poi un bambino deve mangiare.”

Davide esitò, ma Ginevra insistette. Lui sorrise, e il suo sorriso era caldo e sincero.

La mattina dopo, sebbene fosse il suo giorno libero, Ginevra si svegliò presto. “E se Davide va a lavoro e Matteo rimane solo?” Pensò, e decise di bussare alla loro porta. Davide aprì subito, già pronto per uscire.

“Buongiorno! Dove va? Come sta Matteo?”

“Buongiorno. Devo andare a lavoro. Gli ho fatto passare la febbre e ho chiamato il medico. La crostata era buonissima, grazie.”

“Ma se lei esce, Matteo rimane solo! E se sta peggio? Il medico verrà, bisognerà sapere cosa prescrive, e poi un bambino malato non può essere lasciato da solo.”

Entrarono insieme nella camera. Matteo era a letto, silenzioso.

“Ciao Matteo, come stai?” chiese Ginevra, ma lui non rispose, limitandosi a guardarla con occhi tristi.

Davide uscì in cucina, e lei lo seguì.

“Matteo non parla più da quando sua madre è morta in un incendio. Noi eravamo fuori città, da mia madre. Il dottore dice che tornerà a parlare, col tempo. Io lavoro nei vigili del fuoco, non posso stare a casa. Matteo va in seconda elementare, è abituato a cavarsela da sola. Aprirà al medico.”

“Ma non si può!” disse Ginevra decisa. “Oggi ho libero, resto io con lui. E poi, come farà a ricordare cosa dice il medico?”

Davide esitò.

“Se non le dispiace, le sarei davvero grato. Scusi, ma devo correre a lavoro. Ecco le chiavi, se qualcosa…” e uscì in fretta.

Ginevra non era sposata e non aveva figli, ma sapeva come comportarsi con i bambini. Questo, però, era diverso.

“Matteo, hai mangiato qualcosa?” chiese. Lui indicò la tazza vuota del tè e un pezzo di pane avanzato. “Va bene, ti faccio un

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