Raffaella-Fontanella
Negli anni d’ufficio ho avuto come direttrice un ingegnere capo di un grande stabilimento tessile nel Nord Italia, vicino a Milano.
Il posto era pieno di operai bravi e bizzosi, ciascuno con la sua storia. Ma tra tante, c’era una figura impossibile da dimenticare. La chiamavano tutti Raffaella-Fontanella. Anche se aveva sessant’anni, nessuno avrebbe mai immaginato di chiamarla per nome e cognome.
Raffaella era sempre in moto. I suoi passi traballanti facevano notare persino tra i vari rombi delle macchine da cucire. Nel reparto, la sua voce cordiale contrastava con il clangore delle forbici industriali. In un solo turno, Raffaella riusciva a percorrere chilometri, passando da un ufficio a un altro, da un problema a un altro.
Qualsiasi cosa riguardasse il lavoro o la vita social, Raffaella si faceva avanti. Era membro del comitato sindacale, esperta di conflitti e abile negoziatrice. Diceva sempre: “Niente paura, mica siamo qua a mangiarsi il prosciutto!”
Era bravissima a infiltrarsi dove non era richiesta, da chi non la aspettava. Per questo si guadagnò quel soprannome.
A volte la sua sincerità era troppo dura, ma in fondo era solo schiettezza. Non aveva tempo per le amicizie, né per i vestiti alla moda. Tuttavia, un trucco acceso e unghie perfettissime non mancavano mai.
Io, segretaria un po’ svogliata ma sempre pronta a una buona pasta, non l’avevo mai incrociata di persona. Fino a quando non arrivò il nuovo ingegnere, un certo Pietro Romano, più giovane di me. Anzi, quasi un padre.
Era un uomo matto di lavoro e di cucina. In ufficio faceva sempre colazione con panini fatti in casa e tè caldo. Aveva sempre l’aspetto impeccabile: cravatta annodata, scarpe lucide come specchi.
Poco alla volta, Pietro iniziò a invitarmi a pranzo insieme. “Chiara, finirò per morire di fame se non condivido con qualcuno”, scherzava, alzando le spalle.
Accettai di buon grado, anche perché di mangiare non avevo mai rifiutato. E lui, durante quei pranzi, mi raccontò di sua moglie Lanella.
Lanella e Pietro si erano sposati da giovani e avevano tre figli. La loro era una famiglia cresciuta con otto fratelli, un pasticcio di risate e di sostanze umane. Lanella era la seconda di otto, un po’ petulante ma fedele al marito. Avevano perso una figlia neonata, un dolore che non si cancella. Poi i tre maschi, che adesso erano tutti di successo. Lo più piccolo era sempre stato malaticcio, ma adesso era diventato forte come un bue.
Pietro ebbe una cotta per una collega. E lo confessò a Lanella. Era stato un momento di debolezza, una storia breve che lo portò a un figlio illegittimo. Lanella quasi voleva divorziare, ma alla fine, con quel suo modo dolce, decise di accettare. “Se Dio ha mandato questa bambina, non possiamo rifiutarla. La chiameremo Donatella”, aveva detto.
Raccontò tutto con quel tono toccante che aveva Pietro. Mi commossi per una donna capace di tanto. Lanella era diventata una santa vivente. Non solo aveva accolto Donatella, ma aveva anche preso in casa il fratello di Pietro, senza figli, quando il loro immobile bruciò. Aveva pagato un’operazione costosa per salvare la sorella minore, sacrificando il suo benessere.
Un giorno, dentro al reparto, entrò qualcuno con un treno di energia.
“Dove va, signora? Se cerca Pietro, deve prenotare”, gridai.
“Ah, allora se sono la sposa non devo prenotare?” ribatté schiettamente lei.
Era Raffaella.
“Raffaella-Fontanella, la conosco!”
“Scusi, non è mia moglie?”
“Eh, sì. Lanella. Il suo nome ufficiale.”
Chiamai Pietro. Mi spiegò che si erano sposati anni fa, quando lui era un uomo timido.
Poco tempo dopo, Lanella mi invitò a cena con lei e una figliastra, Maria.
Era un errore ipotizzare che un tipo come Pietro potesse nascondere una moglie così vivace.
Oggi, Maria si mette in gara per sposare uno dei figli di Lanella. Raffaella-Fontanella ha una così grande abilità in questi giochi familiari che… be’, adesso anch’io faccio parte della famiglia.
Solo la suocera più rumorosa e allegro è riuscita a tenermi a bada.