Artëm Volkov varcò la soglia del lussuoso atrio della sua nuova sede con la consueta sicurezza. L’ambiente circostante vetro cristallino, marmo lucido, metalli scintillanti sembrava un’estensione di sé stesso: impeccabile, tagliente e inaccessibile.
La segretaria balzò in piedi non appena scorse il suo riflesso nella porta specchiata e sussurrò nel walkie-talkie: “È arrivato.”
Artëm avanzò lungo il corridoio come su un palcoscenico. Il suo abito fatto su misura da un sarto italiano aderiva perfettamente, lo sguardo era diretto, pesante, privo di calore. Un sorriso? Lo considerava un segno di debolezza. E così, non sorrideva mai.
In ufficio regnava un silenzio teso. Tutti sapevano: il nuovo proprietario era giovane, ricco, ma spietato. Nella prima settimana aveva sostituito metà del management. Nessuno si sentiva al sicuro.
Presso le scale rallentò il passo. Una donna in divisa da addetta alle pulizie era inginocchiata, strofinava meticolosamente il marmo e mormorava qualcosa tra sé. Dagli orecchi pendevano le cuffie.
Artëm aggrottò le sopracciglia. La segretaria si affrettò a intervenire:
“Prego, signor Volkov, può passare…”
Ma lui non si mosse.
“Cosa sta ascoltando?”
La donna trasalì, si tolse una cuffia e lo guardò. Negli occhi non c’era paura, ma stanchezza e una lieve perplessità.
“Un audiolibro,” rispose sommessa.
“In inglese?” sollevò lui un sopracciglio.
“Sì.”
Artëm sorrise con disprezzo:
“Se conosce così bene la lingua, forse dovrebbe stare in sala riunioni anziché strisciare per terra.”
Lei non replicò, sostenne solo il suo sguardo con calma. Dentro di lui divampò l’irritazione.
“Vediamo,” sbottò, estraendo un foglio dalla cartella. “Traduca questo. Ora. Senza errori.”
La donna prese il foglio. Gli occhi scorrevano veloci sulle righe. Poi iniziò a parlare chiaramente, con precisione, senza esitazione, con l’intonazione corretta e una resa perfetta del significato.
Artëm rimase immobile. L’irritazione si trasformò in stupore. Strappò via il documento, lo rilesse la traduzione era impeccabile. La fissò di nuovo. Lei si era già rimessa le cuffie e continuava a pulire, come se nulla fosse accaduto.
In silenzio, senza proferire parola, Artëm si voltò e si diresse verso l’ascensore. Per la prima volta dopo anni, sentì di non essere la persona più intelligente in quell’edificio.
Seduto nel suo ufficio al ventisettesimo piano, guardava fuori dalla finestra, le braccia incrociate. Davanti a lui c’era quel foglio. Lo rilesse ancora. Nessuna imprecisione. Nessun dettaglio trascurato. Lei non solo conosceva la lingua comprendeva formulazioni legali e finanziarie complesse che persino i suoi migliori dipendenti faticavano a padroneggiare.
Abbandonandosi sulla poltrona, ascoltò il rumore della città. Come poteva una persona con tale bagaglio di conoscenze ritrovarsi in ginocchio con uno straccio in mano? La sua stessa superbia gli parve improvvisamente meschina e patetica.
“Katja,” chiamò al walkie-talkie. “Trova il dossier sull’addetta alle pulizie.”
“Quale in particolare?” esitò lei.
“Diamine, non ho nemmeno chiesto il nome. Cerca tutte le donne over sessanta nel reparto pulizie. Voglio sapere chi è.”
La segretaria restò immobile non si aspettava una richiesta del genere.
“Va bene, Artëm Sergeevič.”
Mezz’ora dopo, un colpo alla porta. Artëm annuì: “Avanti.”
Katja si avvicinò con una cartella in mano.
“L’ho trovata. Margarita Ivanovna Melnikova. Nata nel 1959. Laurea in Filologia all’Università Statale di Mosca, specializzazione in linguistica applicata. Candidata in Scienze. Lingue: inglese, francese, tedesco, e secondo vecchi dati, un po’ di cinese.”
Artëm alzò lentamente lo sguardo.
“Candidata in Scienze?”
“Sì. Lavorò all’Istituto di Lingue Straniere fino al ’98, poi licenziata, probabilmente per tagli. Più tardi, biblioteca, traduzioni freelance, poi una pausa. Dal 2014, addetta alle pulizie.”
“Perché?”
Katja scosse le spalle.
“Non c’è scritto. Ma ho scoperto che ha una nipote disabile. I genitori non ci sono. Forse ha rinunciato alla sua vita per lei.”
Artëm si alzò, si avvicinò alla finestra. Laggiù, piccole sagome, frenesia, affari. E lui si rese conto di quanto si fosse sbagliato.
“Quando mi sono preso gioco di lei,” mormorò, “sto ridendo di una persona più intelligente di metà del mio management.”
Katja tacque.
Lui si voltò:
“Domani non pulirà. Voglio parlare con lei. Falle visita alle 10.00. Senza preavviso. Dille solo: Volkov la aspetta.”
“E se chiede perché?”
Rifletté, guardando verso la porta.
“