Sorella, la cui presenza mi ha sempre tormentato

«Non toccare la mia bambola!» strillò Annetta, strappando dalle mani della sorella maggiore la creatura di porcellana con riccioli dorati. «Mamma! Fiamma prende di nuovo i miei giiochi!»

«Smettila, spilorcia!» ringhiò Fiamma, otto anni, rilasciando la bambola. «Non è mica la regina d’Inghilterra!»

«Ragazze, perché urlate fin dal mattino?» Giuseppina Rossi uscì dalla cucina asciugandosi le mani. «Fiamma, lascia in pace tua sorella. Hai già tanti tuoi giochi.»

«Sono tutti vecchi, mentre lei ha tutto nuovo!» protestò Fiamma. «Non è giusto!»

«Perché io sono la più piccola,» disse Annetta compiaciuta, stringendo la bambola. «Lo dice sempre mamma.»

Fiamma serrò i denti e tacque. Sì, mamma lo diceva davvero. E la nonna. E zia Livia. Tutti continuavano: «Annetta è piccola, devi darle spazio», «Annetta è fragile, va protetta», «Annetta è così dolce».

E Fiamma? Fiamma era grande, forte, razionale. Doveva sempre capire e cedere.

«Vieni a colazione,» sospirò la madre. «E chiama tua sorella.»

A scuola Fiamma cercava di dimenticare le tensioni domestiche, ma il fantasma della sorella la perseguitava. La maestra Giovanna Ferrari spesso chiedeva di Annetta: «Sta bene? Si ammala spesso? Fra quanto inizia le elementari?»

«E tu aiutera Abetina a prepararsi?» domandò una volta dopo lezione.

«Sì,» menti Fiamma.

In verità detestava quelle lezioni. Annetta si lamentava, rifiutava di imparare l’alfabeto, piagnucolava: «Sono stanca!» E mamma interveniva: «Perché la tormenti? Vedi che è sfinità.»

«Annetta, la A non si scrive così!» sbuffava Fiamma, cancellando uno scarabocchio. «Guarda come si fa!»

«Non ne ho voglia!» gemeva la sorella. «Mi duole il braccio!»

«Non hai nulla! Sei solo pigra!»

«Mamma! Fiamma mi insulta!» gridava Annetta.

E mamma, come sempre, sgridava Fiamma. Sempre Fiamma.

Quando Annetta iniziò le elementari, Fiamma sperò capisse lo sforzo dello studio, i brutti voti. Ma nulla. Annetta imparò con facilità, prese solo dieci e lode, i prof la adorarono.

«Tua sorella è un genio!» esclamò la coordinatrice di Fiamma. «Una piccola fenomena. Studiaté come lei.»

Fiamma rimase muta, pugni serrati. Cosa dire? Che Annetta non era un genio, solo fortunata? Che tutto le arrivava senza sforzo mentre lei sgobbava notti per un otto?

A casa nessuna tregua. Annetta divenne una bellezza: capelli biondo miele, occhi d’azzurro, pelle di pesca. Le vicine esclamavano: «Cielo, che angelo! Pare una madonnina!»

Fiamma? Era ordinaria. Né bella né brutta—semplicemente comune, capelli castani, occhi grigi. Una fra milioni.

«La nostra Annetta faré Pattrice,» sognava mamma pettinandola. «O la modella. Con quel viso é peccato sprecare.»

Fiamma fingeva di non udire, ma ogni parola bruciava. Dunque lei non rischiava di sprecare la sua bellezza? Dunque non sarebbe mai diventata nulla?

«Io faré la dottoressa,» disse un giorno sottovoce.

«La dottoressa?» si meravigliò mamme. «Se ci riuscirai. Devi studiare molto.»

“Se ci riuscirai.” Non “ce la farai” o “diventerai medico”, ma “se”. Come se non credesse in lei.

Intanto Annetta cresceva splendente. Al liceo i ragazzi le ronzavano attorno. Giocava con loro, riceveva regali e fiori. Fiamma osservava con aceto nell’anima.

«Guarda gli orecchini che mi ha regalato Andrea!» cinguettò Annetta davanti allo specchio. «Dice che combaciano con gli occhi!»

«Carini,» borbottò Fiamma fra i denti.

Eppure sognava anche lei regali e complimenti. Ma chi avrebbe visto lei, topolino grigio, accanto a un tale splendore?

«Fiammetta, perché sei così cupa?» chiese Annetta, notando il malumore. «Vuoi anche tu degli orecchini?»

«Non occorre,» tagliò corto Fiamma.

Non voleva elemosine. Non voleva pietà. Voleva essere notata, apprezzata, amata. Ma da chi?

Dopo il liceo Annetta entrò all’accademia di arte drammatica. Mamma era al settimo cielo.

«Sapevo che saresti diventata attrice!» splendeva. «Tale talento, tale bellezza! Sarai certamente famosa!»

Fiamma intanto divorava libri di medicina. Difficile, durissimo. Anatomia, fisiologia, chimica—richiedevano studio incessante. Ma
Sofia osservò le due donne, sue radici così diverse eppure improvvisamente unite, mentre il sole calante tingeva la stanza di una luce calda che sembrava sciogliere gli ultimi gelidi residui degli anni perduti, finalmente madre e zia, non più rivali ma semplicemente sorelle, pronte a ricominciare da capo su fondamenta dimenticate di affetto.

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