La pioggia cadeva come un velo sottile, e la gente correva con gli ombrelli aperti, senza notare la donna in tailleur color sabbia inginocchiata nel mezzo dellincrocio. La sua voce tremava. «Ti prego sposami», sussurrò, tendendo una scatolina di velluto.
Luomo davanti a lei non si radeva da settimane, indossava un cappotto rattoppato e dormiva in un vicolo a due passi da Piazza Affari.
Alessia Rinaldi, 36 anni, miliardaria CEO di una tech company e madre single, aveva tuttoo almeno così credeva il mondo. Premi, copertine di riviste, un attico con vista sui Navigli. Ma dietro le pareti di vetro del suo ufficio, sentiva il cuore affondare.
Suo figlio di sei anni, Matteo, era diventato muto da quando suo padre, un chirurgo famoso, li aveva lasciati per una donna più giovane e una nuova vita a Nizza. Matteo non rideva più. Né davanti ai cartoni, né davanti ai cuccioli, nemmeno davanti a una torta al cioccolato.
Niente lo faceva sorridere tranne quelluomo strano e malconcio che dava da mangiare ai piccioni davanti alla sua scuola.
Alessia lo notò la prima volta che arrivò in ritardo. Matteo, silenzioso, indicò luomo dallaltra parte della strada e disse: «Mamma, lui parla agli uccelli come fossero suoi amici.»
Alessia non ci fece casofinché non lo vide con i suoi occhi. Il senzatetto, forse sulla quarantina, con occhi calmi sotto la barba incolta, allineava briciole sul muretto, parlando a ogni piccione come a un vecchio compagno. E Matteo stava lì, accanto a lui, con una pace negli occhi che non mostrava da mesi.
Da allora, Alessia arrivava sempre cinque minuti primasolo per vederli.
Una sera, dopo una riunione difficile, si ritrovò a camminare da sola, passando davanti alla scuola. Lui era ancora lì, sotto la pioggiacantilenando agli uccelli, bagnato fradicio ma sorridente.
Esitò, poi attraversò. «Scusami», disse piano. Lui alzò lo sguardo, acuto nonostante lo sporco. «Sono Alessia. Quel bambinoMatteolui gli piaci molto.»
Luomo sorrise. «Lo so. Parla anche lui agli uccelli. Loro capiscono cose che noi no.»
Lei rise, suo malgrado. «Posso sapere come ti chiami?»
«Davide», rispose.
Parlarono. Per venti minuti. Poi unora. Alessia dimenticò la riunione, lombrello che le gocciolava addosso. Davide non chiese soldi. Chiese di Matteo, della sua azienda, di quanto dormissee la prese in giro, con dolcezza, per la risposta.
Era gentile. Saggio. Ferito. E diverso da chiunque avesse mai incontrato.
Passarono i giorni. Alessia portò caffè. Poi minestra. Poi una sciarpa.
Matteo disegnava per Davide, dicendole: «Mamma, sembra un angelo. Ma triste.»
Allottavo giorno, Alessia fece una domanda che non aveva pianificato:
«Cosa cosa ti servirebbe per ricominciare? Per avere unaltra possibilità?»
Davide distolse lo sguardo. «Qualcuno che creda che valgo ancora qualcosa. Che non sono solo un fantasma che la gente ignora.»
Poi la fissò negli occhi.
«E vorrei che fosse sincera. Non per pietà. Solo perché mi vuole davvero.»
***
Ed ecco perché Alessia Rinaldi, la miliardaria che comprava startup a colazione, ora era in ginocchio su Corso Vittorio Emanuelezuppa di pioggiacon un anello in mano per un uomo che non aveva nulla.
Davide sembrò sconvolto. Non per i telefoni che già riprendevano, né per la folla incuriosita.
Ma per lei.
«Sposarmi?» sussurrò. «Alessia, non ho un nome. Non ho un conto. Vivo dietro un cassonetto. Perché proprio io?»
Lei deglutì. «Perché fai ridere mio figlio. Perché mi hai fatto sentire viva. Perché sei lunico che non ha mai voluto niente da mesolo conoscermi.»
Davide guardò la scatolina.
Poi fece un passo indietro.
«Solo se rispondi a una domanda prima.»
Lei si irrigidì. «Qualsiasi cosa.»
Lui si chinò, fino a essere alla sua altezza.
«Mi ameresti ancora», chiese, «se scoprissi che non sono solo un senzatetto ma qualcuno con un passato capace di distruggere tutto ciò che hai?»
Gli occhi di Alessia si spalancarono.
«Cosa vuoi dire?»
Davide si raddrizzò. La sua voce si fece roca.
«Perché un tempo, il mio nome lo sussurravano nei tribunali.»
***
Luca Ferraro rimase immobile, fissando la macchinina rossa sbiadita tra le sue mani. La vernice era scrostata, le ruote cigolavano, eppurevaleva più di ogni lusso che possedeva.
«No», disse alla fine, inginocchiandosi davanti ai gemelli. «Non posso prenderla. Questa è vostra.»
Uno dei bambini, con gli occhi castani lucidi, mormorò: «Ma servono soldi per le medicine della mamma. Per favore, signore»
Il cuore di Luca si strinse.
«Come vi chiamate?» chiese.
«Io sono Tommaso», disse il maggiore. «Lui è Matteo.»
«E vostra mamma?»
«Ginevra», rispose Tommaso. «Sta molto male. Le medicine costano troppo.»
Luca li guardò. Avevano sei anni. Eppure erano lì, a vendere il loro unico giocattolo, sotto la pioggia.
La sua voce si fece dolce. «Portatemi da lei.»
Esitarono, ma qualcosa nel suo tono li convinse. Annuirono.
Lo guidarono tra vicoli stretti fino a un palazzo decrepito. Salirono scale rotte, entrando in una stanza fredda, dove una donna giaceva su un divano sformato, pallida e immobile. Il plaid sottile non bastava a coprirla.
Luca tirò fuori il telefono e chiamò il suo medico. «Mandate unambulanza. Subito. Preparate la mia ala privata.»
Riattaccò e si inginocchiò accanto a lei. Il respiro era appena percettibile.
I gemelli lo fissavano.
«La mamma morirà?» singhiozzò Matteo.
Luca si voltò. «No. Ve lo prometto. Starà bene.»
Pochi minuti dopo, i paramedici arrivarono e portarono Ginevra in ospedale. Luca rimase con i bambini, tenendogli le mani mentre lambulanza sfrecciava nella notte.
Al Ferraro Memoriallospedale che aveva finanziato anni primaGinevra fu portata in terapia intensiva. Luca pagò tutto, senza domande.
Per ore, i gemelli si addormentarono accanto a lui in sala dattesa. Luca vegliava, la mente in tumulto.
Chi era quella donna? E perché cera qualcosa in lei che gli sembrava familiare?
***
Una settimana dopo
Ginevra aprì gli occhi in una suite dospedale, la luce dorata che filtrava dalle finestre. Lultimo ricordo era il dolore straziante e le voci dei suoi figli che le dicevano addio.
Ora, il dolore era sparito.
Si sollevòe sussultò.
Tommaso e Matteo corsero dentro, seguiti da un





