Ma che storia è questa con quella Sofia? Che ti serve una moglie così? Ha messo su un bimbo, si è addolcita
Dopo il funerale di mio marito, il figlio mi portò fuori dal borgo. Ai margini della città, mi voltò
Bussarono alla porta. Aprii e davanti a me cera mia suocera, tutta bagnata e con gli occhi gonfi dal
12 ottobre 2025 Oggi la mattina è cominciata come al solito. Mi sono alzato presto, e Francesca girava
Sempre in contatto
La mattina di Nadia era sempre uguale. Il bollitore sulla cucina a gas, due cucchiaini di tè nel vecchio teiera panciuto che aveva gelosamente conservato da quando i figli erano piccoli e il mondo sembrava tutto da vivere. Mentre l’acqua scaldava, accendeva la radio e ascoltava le notizie a metà, ritmando gesti ormai antichi di comfort. Le voci dei giornalisti le erano diventate più familiari di certi volti visti in giro.
Sul muro, l’orologio con le lancette gialle scandiva il tempo con costanza, ma la suoneria del telefono fisso sotto di esso si sentiva sempre meno. Una volta squillava ogni sera: amiche che si chiamavano per parlare della fiction del momento o dei problemi di pressione. Ora, invece, le amiche erano malate, si erano trasferite dai figli a Milano, Bologna, Roma… oppure erano semplicemente andate via per sempre. Il telefono stava in un angolo, pesante, la cornetta liscia che si adattava perfettamente al palmo: Nadia la carezzava passando, come per assicurarsi che fosse ancora vivo quel modo di comunicare.
I figli, invece, usavano solo il cellulare. O meglio, tra di loro si chiamavano spesso, perché quando venivano a trovarla avevano sempre in mano lo smartphone. Il figlio, nel mezzo di una conversazione, poteva interrompersi di colpo e fissare lo schermo, borbottare “Un attimo”, e cominciare a digitare. La nipotina Chiara, magrissima e con una lunga treccia, praticamente non lasciava mai il telefono: lì c’erano amici, giochi, note, musica. Tutti, ormai, stavano là dentro.
Lei invece aveva un vecchio cellulare a tasti, comprato quando per la prima volta finì in ospedale per la pressione. “Così possiamo chiamarti sempre,” aveva detto il figlio allora. Il telefono stava nella sua custodia grigia su una mensola in ingresso. A volte lo dimenticava scarico, a volte finiva nella borsa tra fazzoletti e scontrini. Squillava poco e, quando lo faceva, Nadia spesso non premeva il tasto giusto in tempo e poi si rimproverava per la lentezza.
Quel giorno compiva settantacinque anni. Una cifra che non sentiva sua: dentro si percepiva più giovane di almeno una decina d’anni, forse quindici. Ma la carta d’identità non mente. La mattina seguiva il solito percorso: tè, radio, qualche esercizio per le articolazioni consigliato dalla dottoressa al consultorio. Poi tira fuori dal frigo l’insalata che aveva preparato e mette in tavola la torta; i figli avevano promesso di arrivare per le due.
Ancora si stupiva che adesso il compleanno lo organizzassero in qualche “chat” e non per telefono. Il figlio le aveva detto:
— Noi e Arianna risolviamo tutto sulla chat di famiglia, te la faccio vedere.
Ma non lo aveva mai fatto. Chat sembrava una cosa per gente che vive in piccoli riquadri e comunica attraverso lettere digitali.
Alle due, arrivarono. Prima il nipote Marco, con lo zaino e le cuffie; dietro di lui la tranquilla Chiara, poi il figlio con la moglie, entrambi carichi di borse. In casa, all’improvviso, aria di festa: profumo di dolce preso in pasticceria, di profumo francese e di un sentore fresco, moderno, che lei non sapeva definire.
— Auguri, mamma! — il figlio la strinse forte e veloce, come se avesse fretta.
I regali sul tavolo, i fiori in vaso. Chiara chiese subito la password del Wi-Fi. Il figlio, sbuffando, tirò fuori il foglietto dalla tasca e iniziò a dettarle una serie di numeri e lettere che a Nadia fecero girare la testa.
— Nonna, perché non sei nel chat? — domandò Marco togliendosi le scarpe ed entrando in cucina. — È lì che succede tutto.
— E quale chat sarebbe? — fece lei, offrendogli una fetta di torta. — Mi basta quel cellulare.
— Mamma, — intervenne Arianna, la nuora, — è proprio questo il motivo per cui… — Si scambiarono un’occhiata. — Abbiamo un regalo per te.
Il figlio tirò fuori dal sacchetto una scatola bianca e lucida con una decorazione elegante. Nadia sentì il classico brivido d’ansia: aveva già intuito cosa ci fosse dentro.
— Smartphone, — annunciò il figlio, come se fosse una diagnosi. — Uno buono, niente di eccessivo, ma con tutto: fotocamera, internet, tutto quello che serve.
— Ma a che mi serve? — chiese, tenendo la voce ferma.
— Come, a che serve? Possiamo videochiamarci, — replicò Arianna rapida, con quel tono sicuro tipico dei giovani. — Sulla chat di famiglia condividiamo foto e novità. Adesso si fa tutto così. Prenotazioni mediche, bollette. E tu, ogni volta ti lamenti delle code alla ASL.
— Ma io mi arrangio…
Il figlio sospirò. — Mamma, così siamo più tranquilli. Se hai bisogno scrivi subito, oppure ti scriviamo. Non dovrai più cercare il vecchio cellulare e ricordare il tasto verde.
Sorrideva, cercando di addolcire la situazione. Ma lei sentiva fastidio: “Ricordare il tasto verde”, come se fosse già arrivata a non combinare più nulla.
— Va bene, — disse abbassando gli occhi sulla scatola. — Se proprio ci tenete.
La aprirono insieme, come si fa coi regali dei bambini, solo che ormai i bambini erano loro e lei al centro, non più regina della festa ma quasi sotto esame. Tiro fuori il rettangolo nero e sottile: freddo e lucido, senza nemmeno un tasto.
— Tutto touch, — spiegò Marco. — Basta toccare, guarda.
Passò il dito sul vetro e lo schermo si accese di icone colorate. Nadia trasalì. Sembrava qualcosa di troppo furbo che le avrebbe chiesto password, login, codici strani.
— Non aver paura, — disse Chiara con inusuale dolcezza. — Sistemiamo tutto noi, tu non toccare niente finché non ti spieghiamo.
Quelle parole ferirono più di ogni altra cosa, come a un bambino cui vietano di toccare i bicchieri di cristallo.
Dopo pranzo, tutti in salotto. Il figlio accanto a lei, smartphone sulle ginocchia.
— Questo è il tasto accensione. Premi e tieni. Viene fuori la schermata, poi blocco. Per sbloccare scorri col dito. Così.
Tutto troppo veloce, parole come una lingua straniera.
— Aspetta, facciamo con calma, che dimentico.
— Ma no, vedrai che ti ci abitui, — minimizzò lui.
Lei annuì, ma sapeva che non sarebbe stato così facile. Il mondo si era infilato in questi rettangoli, e ora anche lei doveva imparare a entrarci.
A sera l’avevano già “iscritta” coi numeri dei figli, dei nipoti e della vicina Maria e della dottoressa. Messenger, account, chat di famiglia, caratteri grandi.
— Qui scriviamo, — mostrava il figlio. — Provo a scrivere qualcosa.
Scrisse, e apparve il suo messaggio. Poi quello di Arianna: “Evviva mamma tra noi!” E così via, le faccine della nipote.
— E io? Come faccio?
— Premi qui, — il figlio indicò il campo. — Compare la tastiera, scrivi. O usi la voce, microfono, parli e invii.
Lei provò, con le dita tremanti: invece di “grazie” venne fuori “gragzie”. Il figlio rise, la nuora pure, la nipote mandò altre faccine.
— Sbagliano tutti all’inizio, — rassicurò il figlio, vedendola tesa.
Annui, ma dentro sentì vergogna. Un esame fallito.
Quando se ne andarono, la casa tornò quieta. Sul tavolo resti di torta, fiori, la scatola bianca: lo smartphone, schermo in giù. Lo voltò con cautela, premette il tasto. Lo schermo si illuminò, con la foto di famiglia a Capodanno: lei di sbieco, in abito blu, un sopracciglio sollevato, già indecisa probabilmente se stare al passo nel gruppo.
Passò il dito: icone ovunque. Telefono, messaggi, fotocamera… Si ricordò delle raccomandazioni: “Non premere troppo”. Ma cosa era troppo?
Lo rimise giù e pensò, che il telefono si ambientasse pure in casa.
Il giorno dopo si svegliò prima del solito. Guardò il nuovo telefono: era lì, estraneo, ma la paura di ieri più leggera. Era solo un oggetto; le cose s’imparano. Aveva imparato pure la microonde.
Fece il tè, si sedette e accese il telefono con la mano sudata. Di nuovo la foto di Capodanno. Passò il dito, cercò la cornetta verde: quella almeno era vicina ai ricordi. Prese coraggio e chiamò il figlio.
— Pronto, — la voce era sorpresa. — Tutto a posto?
— Sì, volevo provare. Funziona.
— Visto? — rise. — Brava! Meglio chiamare su WhatsApp, costa meno.
— E come?
— Te lo spiego poi, sono al lavoro.
Riagganciò, cuore in gola ma soddisfatta: era riuscita da sola.
Dopo qualche ora, primo messaggio in chat: “Nonna, come va?” dalla nipote. Campo da scrivere, tastiera piccola. “Tutto bene. Sto bevendo tè” — un errore nella parola “bene”, ma lo lasciò uguale. Inviò.
Subito la nipote: “Grande! Hai scritto tu?” e un cuore.
Sorrise. Aveva scritto lei, e i suoi pensieri erano tra le righe della chat.
Verso sera la vicina Maria portò una marmellata.
— Ho sentito che i tuoi ti hanno regalato quel… coso… telefono intelligente, — sorridendo.
— Smartphone, — rispose lei, la parola troppo moderna, ma ormai sua.
— E va? Non morde?
— Solo squilla, — sospirò. — È tutto diverso. Niente bottoni.
— Mio nipote insiste, dice che senza non si fa nulla. Io credo che sia tardi. Lascio che si arrangino.
“Tardi” la punse al cuore. Ci aveva pensato anche lei. Ma ora aveva davanti qualcosa che forse diceva il contrario: non è mai tardi. Almeno per provare.
Passarono i giorni. Il figlio la chiamò: “Ti ho prenotato la visita dal medico online.”
— Online?
— Sì, tramite “Sportello Digitale”. Te li ho scritti login e password, sono nel cassetto sotto il telefono.
Nadia trovò il foglietto accurato. Era come una ricetta: facile in teoria, mistero nella pratica.
Il giorno dopo si decise: accese il telefono, trovò il browser, seguì i passaggi. Digitare indirizzo, password, login: ogni lettera una piccola battaglia. Poi il sito si caricò.
“Inserisci login e password.” Il login, ok; la password, una confusione di lettere e numeri. Si confondeva, perdeva il campo, si innervosiva.
Alla fine prese il fisso, chiamò il figlio:
— Non ci riesco con queste vostre password!
— Non ti agitare, mamma. Stasera passo con Marco, lui ti spiega meglio.
— Ma ogni volta così, e quando ve ne andate io resto qui sola col telefono.
Silenzio.
— Lo so, — disse. — Tra lavoro e tutto… Passo con Marco, lui è bravo.
Quando Marco arrivò, si sedette accanto. Spiegò senza fretta, indicando i tasti, i passi da seguire, come cambiare lingua, come annullare la prenotazione se serviva.
— Se sbagli, basta ricominciare. Nessuna tragedia.
Lei sapeva che per lui era solo “da rifare”, per lei una sfida vera.
Passò una settimana, e la mattina si sentì male. La visita dal medico era tra due giorni, ma la prenotazione sembrava sparita dal sito. Panico. Le venne voglia di chiamare il figlio, ma temeva di essere di nuovo una zavorra.
Si impose di gestire la cosa da sola: riaprì il sito, navigò tra le opzioni, trovò il nome del medico, la data prenotabile, confermò. Lo schermo mostrò: “Prenotazione effettuata”. Lesse più volte per sicurezza. Aveva fatto tutto da sola.
Poi, per essere certa, scrisse al medico nel chat (il figlio le aveva salvato il contatto): “Buongiorno, sono Nadia. Ho la pressione alta. Ho preso appuntamento online per dopodomani. Se c’è possibilità, mi tenga d’occhio.”
Pochi minuti dopo il medico rispose: “HO VISTO LA PRENOTAZIONE, SE PEGGIORA CHIAMI SUBITO.”
Tensione sciolta. Ce l’aveva fatta.
La sera scrisse nella chat di famiglia: “Ho prenotato dal medico da sola. Sul sito.” Sbagliò una parola, ma lasciò così.
Subito la nipote: “Wow! Sei più brava di me.” Poi la nuora: “Mamma, sono fiera di te.” E infine il figlio: “Visto che ce la facevi?”
Nadia sorrideva. Non era ancora parte delle loro conversazioni veloci e delle faccine, ma tra lei e loro ora c’era un filo sottile. Poteva tirarlo, ricevere risposta.
Dopo la visita decise di imparare altre cose. La nipote aveva raccontato di condividere foto di cibi e gatti nelle chat con le amiche. A Nadia sembrava buffo e un po’ sciocco, ma in fondo le mancava quella vita di “immagini del giorno”.
In una mattina di sole fotografò i vasetti di pomodori sul davanzale e inviò la foto nella chat: “I miei pomodori crescono”.
Le risposte arrivarono: Chiara mandò la foto della sua stanza piena di libri, Arianna un’insalata e la scritta “Imparo da te”, il figlio un selfie stanco: “Mamma ha i pomodori, io i rapporti. Chi vince?”
Rideva: la cucina non era più vuota, lei sentiva la famiglia vicina.
Certo, non sempre era tutto perfetto. Annunci vocali spediti per sbaglio (“Sembravi la conduttrice di un programma!” riso il figlio), domande in chat pubbliche invece che private (“Come si cancella una foto?”), ancora confusione con le icone e gli aggiornamenti, terrori da “sistema da aggiornare”. Ma piano piano il timore diminuiva.
Ormai cercava da sola orari degli autobus, il meteo, persino una torta simile a quella della mamma, trovata su Internet. Aveva fotografato la ricetta scritta a mano e l’aveva inviata.
Il telefono fisso era lì, ma non più unico ponte col mondo: ne sentiva un altro, invisibile, ma saldo.
Una sera, guardando il cielo che si scuriva dietro le finestre, Nadia si sedette con il telefono e rilesse la chat di famiglia. Foto dal lavoro del figlio, selfie della nipote, battute del nipote, messaggi pratici della nuora. In mezzo, le sue risposte: foto dei pomodori, annuncio vocale, domanda sui farmaci.
Si accorse che non era più una spettatrice dietro un vetro. Capiva solo metà delle loro parole e non sapeva usare le faccine come loro, ma la leggevano, le rispondevano, le mandavano cuori.
Arrivò un messaggio: “Nonna, domani verifica. Ti chiamo dopo per lamentarmi?”
Scrisse, con attenzione: “Chiama. Io ascolto sempre.” E inviò.
Posò il telefono accanto alla tazza di tè. La quiete non era più solitudine: tra le mura della città, la aspettavano messaggi e chiamate. Non era parte della “movida digitale”, ma aveva trovato il suo spazio nel mondo digitale.
Sorseggiò il tè, andò a spegnere la luce, e si voltò per guardare il telefono: piccolo rettangolo nero, sereno sul tavolo. Ora sapeva che, volendo, avrebbe potuto sfiorarlo e trovare una voce amica.
E per ora, questo le bastava. 7 giugno Le mie mattine iniziano sempre nello stesso modo. Sul fornello metto la moka, due cucchiaini
Ricordo ancora la casalinga che, per la prima volta nella sua vita, stava per prendere un volo di vacanza;
Regole destate Quando il treno regionale rallentò presso la minuscola stazione di campagna, Teresa Ferri
Allimprovviso proclamò che avrebbe sostenuto le spese principali del matrimonio, lasciandomi la responsabilità
Molti anni fa, in una calda sera destate, mia moglie si prendeva cura della casa mentre io ero qui con
Quando avevo tredici anni imparai a nascondere la fame e la vergogna. Viviamo così poveri a Napoli che
La suocera propose di trasferirsi nel suo appartamento e si vedeva benissimo dove voleva arrivare.
Caro Diario, nonostante lopposizione della mia moglie ho invitato a casa nostra la madre, Maria, per
Quando avevo tredici anni imparai a nascondere la fame e la vergogna. Viviamo così poveri a Napoli che
In vacanza con la parentela sfacciata: mettere finalmente i puntini sulle i
— Sono due settimane che resisto, Sashà! Due settimane in questa catapecchia che loro chiamano «hotel».
Perché abbiamo accettato?
— Perché lo ha chiesto la mamma. «La Ninuccia ha bisogno di riposo, la Ninuccia ha avuto una vita difficile…», — fece la voce della mamma mio fratello.
La zia Nina, in effetti, non aveva avuto un destino facile, solo che a me proprio non veniva naturale compatirla. Mai.
Nina, sorella di mamma da parte di madre, è sempre stata la parente povera di cui tutti devono occuparsi.
La valigia non si chiudeva. Con rabbia, spinsi il coperchio col ginocchio mentre cercavo di incastrare la zip, ma lei traditrice continuava ad aprirsi, vomitando all’esterno il bordo dell’asciugamano da mare.
Dall’altra parte della sottile parete di compensato che in questa squallida pensione chiamano pomposamente «muro», si sentiva uno strillo—era il piccolo Timo, figlio di sei anni della zia Nina.
— Non voglio la pappa! Voglio le crocchette! — urlava il bambino come se lo stessero scannando.
Seguì un tonfo, il tintinnio di stoviglie e la voce pigra e roca di Nina:
— Su, amore, mangia un cucchiaino per la mamma, dai…
Verù, va al supermercato, prendigli quelle crocchette, vedi che si dispera…
Io ho i piedi a pezzi, non ce la faccio.
Rimasi immobile, aggrappata alla cerniera della valigia. Verù! E la mamma correrà di nuovo!
Mio fratello Sacha era seduto sull’unica sedia traballante della nostra minuscola stanzetta e fissava cupo il telefono.
Non cercava nemmeno di fare le valigie. La sua borsa era ancora in un angolo, ammucchiata.
— La senti? — gli sussurrai indicando la parete. — Sta di nuovo comandando la mamma.
«Verù, portami», «Verù, dammi». E la mamma ora si alzerà e correrà.
— Non ti innervosire, — borbottò Sasha senza alzare lo sguardo. — Domani si torna a casa.
— È da due settimane che resisto, Sasha! Due settimane in questa baracca che chiamano «hotel».
Perché ci siamo andati dietro?
— Perché lo voleva la mamma. «La Ninuccia ha bisogno di rilassarsi, poverina, ha avuto tante sfortune», — imitò ancora Sasha.
Mi sedetti sul bordo del letto, le molle protestarono.
Sì, la zia Nina non aveva fatto una gran vita, ma io non riuscivo proprio a compatirla. Mai.
Nina, sorella di mamma, è sempre stata «la povera parentela» di cui tutti dovevano occuparsi.
Il primo figlio lo aveva perso piccolissimo — una tragedia di cui in famiglia si parlava solo a voce bassa.
Poi aveva avuto un marito che amava troppo alzare il gomito ed era morto di bottiglia qualche anno fa.
La zia allevava due figli da uomini diversi, viveva in casa della nonna.
Lì stava anche l’ennesimo «uomo dei sogni» — l’ottavo nella lista.
Nina non amava lavorare, convinta che il suo destino fosse abbellire il mondo e soffrire, mentre il mantenimento di questa festa della vita dovesse spettare agli altri.
In primis — la mamma, Vera, per la quale, secondo Nina, «i soldi crescevano sugli alberi».
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra.
Lì il panorama era davvero «fantastico»: i bidoni dell’immondizia e il muro di un pollaio.
L’idea di questa vacanza era stata della mamma. «Dai, tutti insieme, come una famiglia, a dare una mano a Nina per distrarla un po’».
Dare una mano significava che Vera aveva pagato quasi tutte le quote, comprato da mangiare e cucinato per tutti, mentre Nina e la nuova amica Larisa—conosciuta in piscina per la comune passione per le vacanze a sbaffo—stavano sdraiate al sole tutto il giorno.
— Preparati, — dissi a Sasha. — Stasera andiamo al ristorante. Cena d’addio.
***
Il ristorante, ovviamente, non l’avevamo scelto noi.
Nina aveva annunciato che voleva qualcosa di costoso.
Era sul lungomare. Avevano unito due tavoli, per far stare tutta «la truppa», come la chiamavo mentalmente.
Nina, nel suo vestito luccicante già stretto, sedeva a capotavola con accanto la sua amica Larisa, grossa, rumorosa, ossigenata.
— Cameriere! — strillò Nina, neanche guardando il menù. — Il meglio che avete! Spiedini, insalate, e pure quella bottiglia rossa, via!
Vera, mia madre, era seduta all’angolo con un sorriso timido. Sembrava sfinita.
In queste due settimane non aveva riposato un minuto: ora le crisi di Timo, ora i malumori di Nina, ora Aline col broncio.
— Mamma, prenditi il pesce, ti piaceva, — le sussurrai inclinandomi verso di lei.
— Ma dai, costa troppo, — scrollò la testa Vera. — Mi basta un’insalatina. Che mangi Nina, lei ne ha passate tante quest’anno.
Mi arrabbiai. Sì, certo, ne ha passate… accanto Timo, il piccolo tiranno, martellava il piatto col cucchiaio.
— Dammi da mangiare! — ordinò, bocca spalancata senza staccare lo sguardo dallo schermo.
E Nina, mollando la chiacchiera con Larisa, gli infilò la forchettata in bocca.
— Il mio tesoro, — squittì. — Mangia e diventa forte.
— Ha sei anni, — non resistetti. — Davvero non sa mangiare da solo?
Calo il silenzio. Nina si girò piano.
— E tu chi ti crede di essere, cara nipotina? — sibilò. — Fai un figlio e poi parla.
Ha un’anima sensibile il mio bambino! Ha bisogno d’affetto!
— Ha bisogno di regole, non di tablet a tavola, — replicai. — Grida come un matto appena qualcosa non gli piace. State crescendo un piccolo despota.
— Ma senti! — intervenne Larisa. — Ma guardala questa! Psicologa ora! Le uova che insegnano alla gallina.
Cara mia, tu non hai mai visto la vita vera, eppure ci fai la morale!
— Basta, — sussurrò la mamma, tirandomi per la giacca. — Basta, non rovinare la serata. Ti prego.
La serata sembrava infinita. Nina e Larisa a sparlare di uomini e sfortuna, di quanto sia dura la vita da donna.
Aline trafficava col cellulare lanciando sguardi di disprezzo ai genitori. Timo ogni tanto riprendeva a piangere, chiedeva il dolce, e subito veniva ordinato il gelato più grande.
Quando arrivò il conto, Nina fece una sceneggiata:
— Oddio, il portafoglio! L’ho dimenticato in stanza! Verù, puoi pagare tu? Te lo restituisco subito… appena torniamo.
«Mai nella vita», pensai vedendo la mamma tirare fuori la carta senza una parola. Solita, tristissima scena.
***
Tornammo in pensione ormai a notte fonda. Corsi subito in doccia per lavarmi di dosso quella serata vischiosa.
L’acqua era un filo, ora gelida ora bollente.
Uscendo, passai davanti alla cucina dalla porta socchiusa: si sentiva un brusio forte.
— …Ma l’hai vista quella là? — squittiva Larisa. — Sempre col muso storto…
«Non sa nemmeno mangiare».
Ma chi sei tu per giudicare? Non hai la minima idea della vita, mocciosa! Senza di te, Vera, sarebbe a tirare la coda alle mucche invece che in pizzeria a fare la preziosa.
Un’arrogantella vuota. Né uomo né cervello, solo spocchia.
Trattenni il fiato.
Il cuore mi batteva in gola, un dolore sordo. E aspettavo. Che la mamma si facesse sentire.
Che dicesse: «Basta, Larisa. Non osare parlare così di mia figlia». Che almeno uscisse dalla stanza.
Ma invece un sospiro pesante di Nina e la sua voce piagnucolosa:
— Uh, lascia stare, Lar… È tosta la ragazza, troppo. Prende tutto dalla famiglia del padre, tutti con la puzza sotto il naso.
Non come le mie. Alina magari è testarda, ma ha buon cuore.
Quella… ci guarda come fossimo sporcizia. Mi si chiude lo stomaco quando mi siede accanto.
— È colpa tua, Vera! — rincarò Larisa. — Dovevi darle due sberle, altro che storie.
Adesso? Fa la regina e neanche ti vede, da madre…
Se fosse mia figlia, da un bel pezzo l’avrei cacciata di casa, a provare la vita vera.
Mi appoggiai alla porta, la fronte sullo stipite. La mamma taceva.
Era lì, con quelle donne, a bere il tè (o altro, a giudicare dalle esalazioni) e ascoltare come maltrattavano la sua unica figlia.
Mi raddrizzai di scatto. Aprii la porta con uno schianto.
In cucina calò il gelo.
Le tre sedute intorno al tavolo di plastica, tra avanzi e sacchetti vuoti.
Nina ancora nel vestito sfondato, Larisa col viso paonazzo, e la mamma…
La mamma che subito abbassò la testa.
— Quindi, sarei vuota? — la mia voce non tremava.
Era dura come la pietra.
— E tu, zia, tanto buona?
Nina sgranò gli occhi. Larisa si alzò, una montagna.
— Che fai, origli, mocciosa? — ringhiò. — Ti scaldi le orecchie?
— Non ho origliato. Urlavate da sentire dall’altro capo della pensione, — avanzai guardando negli occhi la zia. — Allora, ti va ancora il boccone di traverso?
Ma quando la mamma pagava il conto in pizzeria, il boccone scendeva bene, eh?
— Sei un’ingrata! — urlò la zia, paonazza. — Vi tratto tutti con il cuore e tu mi rimproveri i soldi!
Potresti essere mia figlia, e invece mi rinfacci un pezzo di pane?
Ma tieniteli i tuoi soldi, che ti strozzino!
— Non vi rimprovero i soldi, ma la vostra sfrontatezza! — mi lasciavo andare. — Hai sempre vissuto sulle spalle di mamma!
Una volta un marito, poi l’altro, adesso i figli, poi le malattie inventate!
La mamma si spacca la schiena perché tu, poverina, possa andare in vacanza, e poi alle spalle la disprezzi pure!
Tua figlia, una ragazzetta maleducata che ti tratta come uno zerbino e mi fa la morale?
Tuo figlio, un manipolatore che non sai dire mai di no!
La zia rimase zitta, attonita.
— Basta, Lyuba! — gridò mamma in lacrime, saltando in piedi. — Basta subito! Torna in camera!
— No, mamma, non vado, — la guardai, e nei miei occhi c’era tutta la mia sofferenza. — Tu resti qui mentre quella sconosciuta mi insulta davanti a te.
E tu stai in silenzio? Lasci fare?
Larisa si alzò e si fece avanti con i pugni chiusi.
— Adesso basta, mocciosetta, ti insegno io il rispetto…
Alzò il braccio. Non feci neanche in tempo ad avere paura—Sasha le afferrò il polso a mezz’aria.
— Prova solo, — disse piano. — Siete impazzite del tutto? Zia Nina, fate i bagagli. Ce ne andiamo.
— Chi sarebbe «ce ne andiamo»? — strillò Nina isterica. — Io resto! Ho ancora due giorni di vacanza!
Vera! I tuoi figli sono fuori di testa! Vogliono picchiare la gente!
Finalmente la mamma reagì. Mi afferrò per le spalle e iniziò a scuotermi:
— Perché lo hai fatto?! — gridò piangendo. — Bastava che stessi in camera!
Hai rovinato tutto! Siamo una famiglia! Che vergogna, che scandalo!
Togliendo le sue mani dalle spalle, la guardai. Qualcosa in me si era spezzato, per sempre.
— Io non mi vergogno, mamma, — dissi piano. — Quella che dovrebbe vergognarsi sei tu. Perché lasci loro trattarci così…
Girandomi, uscii dalla cucina. Sasha dietro di me.
In camera facemmo i bagagli in silenzio. Dal muro si sentivano i pianti isterici di Nina, Larisa che ci insultava.
Aline, svegliata dal casino, brontolava che non la lasciavamo dormire.
— Non possiamo andarcene ora, — disse Sasha, chiudendo la valigia. — Il bus parte solo domani mattina. Tocca stare alla stazione tutta la notte.
— Stare alla stazione è meglio che qua, — raccattando la trousse. — Neanche un secondo di più in questa discarica.
— E la mamma?
Mi fermai con la maglietta in mano.
— La mamma ha fatto la sua scelta. È rimasta in cucina. A consolare la sorella.
***
Io e mamma non ci parliamo, nemmeno Sasha le ha mai perdonato.
Vera ci ha chiamati un paio di volte, pronta a «perdonarci» se ci scusiamo con la Ninuccia. Ma io e Sasha, perdoni così non ci servono.
Basta, ne abbiamo avuto abbastanza.
Se a lei piace stare sempre dietro la sorella, buon per lei. Ma noi, senza parenti sfacciati, stiamo benissimo. In vacanza con i parenti sfacciati: mettere le cose in chiaro Da due settimane sopporto, Simo!
Mio padre, Giovanni, mi raccontò a 72 anni che avrebbe sposato una sua ex compagna di classe.
**Diario Personale di Elena** Oggi è stata una giornata pesante. Appena ho sentito il rumore delle chiavi
Quando la nonna Giulia scopre di essere malata, accoglie la notizia con una serenità che a molti sembra
Panchina per due La neve era già scomparsa da un po, ma la terra nel giardino pubblico restava scura
Il suo comportamento con me è diverso, non è lo stesso di quello con lei. Chi è questa? Il cellulare
Ho cinquantacinque anni, mi chiamo Silvia Bianchi e, finalmente, vivo solo per me stessa. Nessuna colpa
Toccare con lo sguardo e sentire la felicità Da diciannove anni Caterina Bianchi vive nel suo piccolo
Quando sono salito sullaereo, mi sono accorto subito che i nostri posti erano già occupati.
A volte nella vita ci troviamo di fronte a situazioni che richiedono una soluzione rapida e immediata.
15 aprile 2025 Diario Mi chiamo Loredana e oggi ho dovuto affrontare la prova più dura da quando ho comprato
Papà è vero? mi chiedeva Ginevra, la più grande. Cosa esattamente? rispose lui a bassa voce, senza osare