Marco stava davanti alla grande vetrata panoramica del suo nuovo appartamento al ventiduesimo piano di
Un tempo si prendevano i bambini dagli orfanotrofi, ma io decisi di portare mia nonna fuori dalla casa
Così właśnie zrobiłem, gdy w kieszeni mojego męża znalazłam dwa vouchery na rejs po morzu. Na jednym
Rimproveravo mio marito perché abitava nella mia casa. Un fine settimana ha messo tutto in valigia ed
Di recente sono stato a casa di mio figlio e di mia nuora, e con mia grande sorpresa cera una donna che
E mi proponi di correre due chilometri con il neonato per comprare del pane? E, davvero, non so più se
Restare umani A metà dicembre, Bologna era intrisa di vento e umidità. Una sottile coltre di neve ricopriva
La ragazza si prendeva cura della nonna della vicina, e tutti pensavano che lo facesse solo per ereditare
«Per questa sciocchezza non mi darò nemmeno il permesso di prendere giorni dal lavoro», mi disse la mamma
Quando vi comprate una casa? La voce di Maria Grazia era tagliente, insistente. Sedeva sul divano nel
— Non è tua figlia, ma sei completamente cieco?
Frequentavo il mio futuro marito da meno di un anno. Quando ho conosciuto sua madre, non avrei mai immaginato che il suo atteggiamento nei miei confronti e verso nostra figlia, nata dopo il matrimonio, sarebbe stato così sospettoso e negativo. Il problema era che la nostra bambina è nata biondissima con occhi azzurri, mentre mio marito e il suo fratello minore hanno un aspetto piuttosto mediterraneo.
Quando ero ancora in ospedale, mia suocera mi ha chiamato per congratularsi e conoscere la nipotina. Così è avvenuto l’incontro. Il volto di mia suocera si è fatto sospettoso e, nell’atrio dell’ospedale, mi ha chiesto a bruciapelo:
— Ma… vi hanno scambiato la bambina?
Tutti quelli che ci hanno sentito sono rimasti di sasso, e mia suocera mi fissava aspettando la risposta. Io, imbarazzata, ho risposto che non potevano averla scambiata perché ero sempre stata con lei.
Il secondo commento era chiarissimo nei suoi occhi, ma questa volta non ha detto niente. A casa poi, mentre io e mio marito eravamo con la bambina, ha dichiarato:
— Non è tua figlia, ma sei cieco?
Mio marito è rimasto di stucco, ma sua madre ha continuato a insistere:
— Non ha niente di te e non assomiglia neanche alla madre… chiediti perché. Sarà sicuramente il figlio di un altro!
A quel punto mio marito mi ha difeso, portando di peso la suocera fuori di casa. Ero ferita, avevamo tanto atteso quel giorno, la gravidanza era stata difficile, ma la nostra bambina era sana e io mi sono rilassata quando me l’hanno portata vicino, tutta rosa e urlante, e il dottore ha scherzato:
— Che voce ha questa bimba, sarà una cantante con questi polmoni!
Ho sorriso, mi hanno messo la bimba accanto e ci hanno portati nel reparto. Nei giorni prima delle dimissioni sognavo le feste in famiglia, organizzavo tutto mentalmente — e poi…
Quando la suocera se n’è andata, mio marito ha provato a rassicurarmi, ma l’umore era ormai rovinato. Lei sembrava impazzita: anche quando il figlio non la sosteneva, non demordeva — anzi, aveva cominciato una vera guerra. Telefonate continue a mio marito, e ogni sporadica visita era accompagnata da frecciatine velenose verso di me e la nostra felicità.
Non ha mai voluto prendere in braccio sua nipote, cercava sempre di restare sola col figlio e pretendeva il test del DNA. Nemmeno a parlarne di smettere con i sospetti, e io sentivo tutto dall’altra stanza. Mio marito cercava di convincerla che la bambina era sua figlia e che si fidava di me, ma lei rideva:
— E allora facciamolo, questo test!
Un giorno non ci ho più visto. Sono entrata in cucina e ho buttato lì:
— Ma quanto dobbiamo andare avanti così? Facciamo il test, dai! Così ordiniamo una bella cornice, la mamma se la appende sopra il letto e può ammirare il risultato, che il papà sei tu!
Mia suocera mi ha fulminata con lo sguardo, ma capivano tutti cosa intendevo davvero.
Abbiamo fatto il test. Mio marito nemmeno voleva leggerlo, sapeva benissimo cosa ci fosse scritto, e mia suocera, guardando il risultato, mi ha riconsegnato il foglio. Non ho resistito:
— Allora, che cornice vuoi: chiara o scura?
Si è infuriata:
— Sta prendendo in giro! Sicuramente il test lo ha fatto qualche suo amico. Mio figlio più giovane ha una bimba identica a lui — stessa pelle, stessi occhi scuri, si vede che è nostra!
Insomma, il test, tanto voluto da mia suocera, non ha cambiato nulla. La guerra familiare è continuata ancora. Sono passati cinque anni tra tensioni e discussioni, poi sono rimasta di nuovo incinta, qualche mese dopo la moglie del fratello di mio marito. Con loro avevamo buoni rapporti, sorridevano solo quando la suocera ricominciava con i suoi sospetti paternità.
La loro seconda bimba era una femminuccia. Siamo andati a trovarli appena uscite dall’ospedale, sollevo la copertina e… scoppio a ridere: una copia della nostra bambina! Tutti mi guardano, io continuo a ridere e dico:
— Allora, confessate: anche voi l’avete fatta col mio amante?
Tutti hanno capito la battuta, c’è chi ridacchiava nervoso, ma il clima si è sciolto. Solo la faccia di mia suocera è diventata paonazza. Non ha detto nulla, ma quello fu il punto di svolta. Da allora la suocera smise di dire sciocchezze e, quando la vidi giocare con mia figlia per la prima volta, capii che il ghiaccio era rotto.
Ora mia figlia è la nipote più amata: “la nostra bambina”, “la mia piccolina”, “il mio mirtillino”… Mia suocera la sommerge di regali e coccole, cercando forse di recuperare il tempo in cui ci vedeva come nemiche. Io non sono arrabbiata con lei, ma un piccolo segno è rimasto. Spero che prima o poi sparisca. Ma questa non è tua figlia, sei proprio cieco? Stavo insieme a mio futuro marito da meno di un anno quando
«Non osare toccare le cose di mia madre», disse mio marito
«Questi vestiti sono proprietà di mia madre. Perché li hai messi via?», mi chiese mio marito con una voce che sembrava quella di uno sconosciuto.
«Vanno buttati. A che ci servono, Marco? Occupano metà dell’armadio, e io ho bisogno di spazio per mettere le coperte invernali e i cuscini di ricambio. In casa nostra ormai è tutto un disordine».
Con aria pratica, Olga stava continuando a togliere dalle grucce le modeste magliette, gonne e vestitini leggeri della sua defunta suocera, la signora Valentina. Quest’ultima aveva sempre sistemato in modo accurato tutti i suoi abiti, per mantenerli ordinati, e questa abitudine l’aveva trasmessa anche al figlio. Nei cassetti di Olga, invece, regnava il caos: ogni mattina si immergeva fra le pile di indumenti a cercare una maglia o una camicetta, si lamentava di non avere mai niente da mettere e poi si affaccendava a stirare con il ferro a vapore le maglie stropicciate, che sembravano uscite dalla bocca di una mucca.
Era passato solo un mese da quando Marco aveva accompagnato la madre al suo ultimo viaggio. Valentina aveva bisogno di cure — ormai, purtroppo, senza speranza — e di riposo. Il cancro al quarto stadio avanzava veloce. Marco l’aveva portata a casa sua. Si era spenta in soli trenta giorni. Ora, rientrando dal lavoro, si era ritrovato davanti i suoi vestiti buttati alla rinfusa, come fossero spazzatura, proprio al centro del corridoio. Rimase impietrito. Possibile che fosse tutto lì? Era forse quello il rispetto per sua mamma? Buttar via tutto — e subito dimenticare?
«Perché mi guardi come Garibaldi davanti ai Borboni?», sbottò Olga.
«Non toccare queste cose», sibilò Marco tra i denti. Il sangue gli salì alla testa così forte da fargli perdere la sensibilità nelle mani e nei piedi.
«Ma che ci facciamo con questa roba vecchia?», ringhiò Olga, iniziando a perdere la pazienza. «Vuoi forse fare un museo in casa nostra? Tua madre non c’è più, accettalo! Avresti dovuto preoccupartene di più quando era viva, magari andarla a trovare più spesso: allora forse sapresti quanto stava male!»
Marco fu colpito da quelle parole come con una frusta.
«Vai via, prima che faccia qualcosa di cui potrei pentirmi», sussurrò tra i singhiozzi.
Olga sbuffò:
«Prego. Psicotico…»
Per Olga diventava “psicotico” chiunque osasse avere un’opinione diversa dalla sua.
Marco, senza togliersi nemmeno le scarpe, andò al grande armadio in corridoio, aprì gli sportelli più in alto, prese uno dei vecchi borsoni a quadretti che avevano usato per il trasloco. Ci mise con cura tutte le cose della madre, piegandole con attenzione, non ammassandole a caso. Sopra ci mise il giaccone e la busta con le sue scarpe. Accanto a lui c’era il più piccolo dei figli, che lo aiutava provando addirittura a infilare nella borsa il suo trattorino giocattolo. Alla fine Marco cercò una chiave nel cassetto dell’ingresso e se la mise in tasca.
«Papà, dove vai?»
Marco fece un sorriso amaro, con la mano già sulla porta.
«Torno presto, tesoro, vai dalla mamma.»
«Aspetta!», si allarmò Olga, comparendo sulla soglia del soggiorno. «Te ne vai? Dove? E la cena?»
«Grazie, sono sazio… dal tuo atteggiamento verso mia madre.»
«Ma dai, su, ti sei agitato per nulla! Smettila. Dove mai vuoi andare a quest’ora?»
Senza voltarsi, Marco uscì portando con sé la borsa. Si mise al volante, uscì dal cortile e si diresse verso la tangenziale, la Barriera di Milano. Sfrecciava tra le auto, pensando a tutto fuorché alla strada: il lavoro, le ferie estive, i post divertenti sui social — tutto si riduceva a dettagli insignificanti. L’unico pensiero fisso era sua madre, la sua famiglia: figli, moglie… e mamma. E si sentiva in colpa. Non era stato abbastanza presente, non aveva visto in tempo quanto lei stesse male, sempre preso da mille impegni. Sua madre non voleva disturbare, lui rimandava sempre una visita, una telefonata, una parola in più.
Dopo circa un’ora, si fermò alla solita trattoria di provincia per uno spuntino veloce, e per le successive tre ore guidò senza fermarsi. Notò solo una volta il tramonto: il cielo grigio squarciato all’improvviso dalla luce rossa che sembrava aggrapparsi disperatamente all’orizzonte. Arrivò ormai al buio al paesino dove era cresciuto. Cercò fra le vie sterrate fino alla vecchia casa della madre, quella dove aveva trascorso infanzia e adolescenza.
Nell’oscurità si intravvedevano a malapena i dettagli. Aprì il cancelletto, illuminando la serratura con il cellulare. Cinque chiamate perse dalla moglie. No, quella sera non avrebbe chiamato nessuno. Lasciò il telefono su silenzioso. Il profumo dolciastro della robinia in fiore ammaliava le farfalle notturne; i fiori bianchi spiccavano nel buio. Nelle finestre, l’ombra sfocata del cielo. Marco prese le chiavi, aprì la porta ed entrò, trovando subito l’interruttore per accendere la lampadina impolverata.
Vicino all’ingresso c’erano le ciabatte da casa che la madre calzava per girare in cortile. Accanto all’altra porta, quella delle camere, le sue pantofole blu, consunte, con due coniglietti rossi ricamati sui davanti. Un regalo di Marco di otto anni prima. Si fermò, le fissò a lungo, scosse la testa, poi avanzò.
“Ciao mamma, mi aspettavi?”
No, in quella casa non lo attendeva più nessuno.
L’odore era quello del legno, dei mobili vecchi, di un po’ di umidità. Quella casa richiedeva sempre di essere scaldata un po’, altrimenti prendeva umido e muffa. Sul comò, la spazzola, il piccolo set di trucchi e sulla gruccia un sacchetto trasparente con la scritta “prezzo basso”, pieno di pasta da supermercato. In salotto, l’unico mobile nuovo era il divano, che Marco aveva regalato proprio a lei insieme al televisore. Il frigo, rimasto aperto in cucina, sembrava gridare che ormai lì non viveva più nessuno. La stanza di mamma, proprio di fronte: il letto con la piramide di cuscini e la copertina bianca. Marco si sedette piano.
Quella, un tempo, era stata la sua camera, prima che i genitori si trasferissero nella più grande. C’era anche la seconda branda vicino al muro per il fratellino, e uno scrittoio davanti alla finestra. Ora lì c’era la macchina da cucire: la mamma adorava cucire e ricamare. Il secondo letto era stato sostituito da una cassettiera con le sue cose.
Marco restò seduto, in silenzio, spaesato davanti a quella cassettiera, come se ci fosse il fantasma della madre. Si accasciò, la testa fra le mani, e si piegò in due singhiozzando sulla coperta candida.
Piangeva per non esserle riuscito a dire niente quando lei, nell’ultimo giorno, gli aveva stretto la mano. Era rimasto muto come una statua, incapace di trovare le parole giuste mentre la vedeva spegnersi. Migliaia di pensieri non detti gli stringevano la gola. Lei sussurrò: «Non guardarmi così, Marco… Con voi sono stata felice». E lui avrebbe voluto! Avrebbe voluto ringraziarla per l’infanzia serena, per l’amore, i sacrifici, il tepore della famiglia, quella sensazione di essere al sicuro, il porto dove tornare sempre, qualsiasi errore avesse commesso.
Ma era rimasto di pietra, incapace di esprimersi. Le parole del cuore gli apparivano sempre troppo solenni, troppo vecchie, da risultare ridicole. Questo tempo nostro ha dimenticato come si parla davvero di sentimenti, ma è bravissimo nella diffidenza e nel cinismo.
Spense la luce e si addormentò vestito, cercando di non sgualcire il letto sistemato con ordine. Si trovò una coperta calda, si coprì e sprofondò nel sonno. Nemmeno lui si aspettava che avrebbe dormito così bene. Al risveglio, alle sette, come sempre, uscì a prendere la borsa dalla macchina. Davanti alla casa il filare di betulle, già verdi, sembrava una fila di damigelle di primavera: i primi raggi di sole si irrobustivano tra i loro rami. Marco si fermò a respirare quell’aria pulita, ascoltare il canto degli uccelli. Che fortunato era stato, a crescere fuori città! Si stiracchiò, tornò in casa e sistemò le cose della madre nell’armadio, curando ogni piega, ogni gruccia. I suoi sandali e le scarpe vennero allineati in basso. Quando tutto fu pronto, fece un passo indietro, come a valutare se la mamma avrebbe approvato. Sembrava di rivederla sorridere, con quella tenerezza silenziosa che sapeva trasmettere amore con gli occhi.
Marco abbracciò i vestiti, inspirò quel profumo familiare, rimase fermo senza sapere che fare. Poi, finalmente, riprese il telefono.
«Buongiorno, dottor Contini. Oggi non riesco a venire in ufficio. È una questione familiare urgente. Se la cavate senza di me? Grazie.»
E alla moglie scrisse: «Scusami, sono stato brusco. Torno stasera. Ti bacio».
Nel giardino sbocciavano i fiori. I narcisi erano già in piena fioritura, i tulipani solo all’inizio e, in fondo alle siepi di ribes, raccolse anche qualche mughetto. Ne fece tre mazzetti, uno per ciascuno di coloro che lo attendevano al cimitero: il fratello, il padre, la madre. Passando davanti al solito negozietto, si ricordò di non aver ancora mangiato nulla. Entrò, comprò latte e una rosetta, prese pure una tavoletta di cioccolato.
«Ehi, Marco! Di nuovo qui?», si stupì la signora Iride, la negoziante.
«Eh, sì… Sono venuto a trovare la mamma», disse Marco, abbassando lo sguardo.
«Capisco. Vuoi della ricotta fresca? La prendo da un produttore bravissimo. Tua madre la sceglieva sempre.»
La guardò, quasi infastidito, ma poi si arrese: «Va bene, mi dia anche quella. E lei, tutto a posto, signora Iride?»
«Eh… meglio non chiedere», fece lei con un gesto. Da anni era amica della mamma. «Il mio, di figlio, ormai è un disastro, sempre a bere.»
Marco fece colazione direttamente al cimitero, davanti alle tre tombe. I fiori erano ultimi omaggi: narcisi, mughetti e tulipani, uno per ciascuno. Fratello, padre, madre. Il fratello era mancato giovane: un incidente mentre cambiava le tegole del tetto. Poi morì il padre, cinque anni prima. E ora la madre. Marco pose su ciascuna lapide un pezzetto di cioccolato, e sulla tomba della mamma anche un po’ di ricotta. Loro sembravano sorridergli dalle foto incise sul marmo. Marco intratteneva con loro una conversazione muta.
Ritrovava nella memoria gli scherzi da bambini con il fratello, le prime uscite col padre per pescare il luccio all’alba, e la mamma… ah, la mamma! Quando chiamava forte dal cortile: «Markus! È pronto!» e lui si vergognava davanti agli amici di sentire la voce rimbombare per tutto il borgo. Come darebbe ora perché lo chiamasse di nuovo così.
Marco si alzò e sfiorò la croce provvisoria sulla tomba della madre. La terra era ancora fresca e nera sotto il sole.
«Mamma, perdonami… Non sono riuscito a starti davvero vicino. Eravamo indipendenti, eppure senza di te è così vuoto. Quanto avrei da dirti oggi, e a te anche, papà. Siete stati i genitori migliori, vi sono grato… Com’è che ci riuscivate, Maria? E noi, invece, pensiamo solo a noi stessi. Io, io, a me, voglio, il mio… Grazie di tutto. E anche a te, Ale, grazie.»
Era ora di ripartire. Marco se ne andava lungo la strada di campagna, strappando i fili d’erba e mordicchiandone la parte tenera. Al primo incrocio incontrò il vecchio amico Sergio, il figlio della negoziante. Era già ubriaco, trascinato dagli eventi.
«Oh, Marco! Sempre qui?», biascicò Sergio.
«Sì, sono stato un po’ dai miei. E tu sempre a bere, eh?»
«Quando mai no?! Oggi poi è festa», balbettò tirando fuori dal pantalone un calendario a strappo in cui era segnato il giorno precedente. Lo girò e trionfante lesse: «La giornata mondiale delle tartarughe!»
Marco fece una smorfia: «Capito, Sergio. Ma ricordati di tua madre. È una brava persona. E non durerà per sempre. Ricordatelo.»
E proseguì lasciandolo lì, mentre quello, solo dopo un attimo di silenzio, gli gridò dietro:
«D’accordo… Stammi bene, Marco!»
«Ciao, Sergio», rispose Marco senza voltarsi. «Non osare toccare le cose di mia madre», disse il marito. Questi vestiti sono proprietà di mia madre.
Fiorenza stava già indossando il camice quando il cellulare della collega squillò: Fiorenza, oggi dovevi
*Diario personale* Oggi è stato un giorno che mi ha spezzato il cuore. Due estranei hanno bussato alla
Diario di Antonella Grazie di cuore a chi mi sostiene, ai like, ai commenti pieni di comprensione sui
«Non voglio un’altra nuora, fai come vuoi tu!» – disse la madre a suo figlio
Mauro stava per laurearsi e pensò che fosse il momento ideale per sposare la sua prima fidanzatina del liceo, Martina! Martina era bella, ma soprattutto una ragazza intelligente e gentile. In quel periodo, stava scrivendo la sua tesi di laurea magistrale. I due giovani avevano deciso che si sarebbero sposati subito dopo la discussione.
Mauro decise di parlare del matrimonio alla madre, che però non accolse bene la notizia. La madre gli disse che avrebbe dovuto sposare solo Alessia, la ragazza della porta accanto, o nessun’altra. Poi gli chiese cosa fosse più importante per lui: la carriera o l’amore? Lei sognava da tempo che suo figlio diventasse un uomo di successo.
Alessia veniva da una famiglia benestante e da tempo aveva una cotta per Mauro, mentre lui era innamorato di Martina, che proveniva invece da una famiglia modesta. La mamma di Martina aveva una brutta reputazione… Cosa avrebbe detto la gente?
«Non voglio un’altra nuora, fai come vuoi tu!» – disse la madre a suo figlio.
Mauro cercò a lungo di convincere la mamma, ma lei fu irremovibile e aggiunse che se avesse sposato Martina lo avrebbe maledetto. Mauro si tirò indietro. Continuò a vedere Martina per altri sei mesi, ma la loro storia si spense piano piano.
Alla fine si sposò con Alessia. Lei era davvero innamorata di lui, ma decisero di non fare nessun ricevimento di nozze. Mauro non voleva che Martina vedesse le sue foto del matrimonio. Alessia proveniva da una famiglia agiata, così Mauro si trasferì nella grande villa dei suoi suoceri. I genitori di Alessia lo aiutarono anche a fare carriera. Ma Mauro non fu mai felice.
Non voleva figli. Quando Alessia capì che non sarebbe mai riuscita a convincerlo ad averne uno insieme, chiese il divorzio. A quel punto Mauro aveva già quarant’anni e lei trentotto. Poco tempo dopo Alessia si risposò, ebbe un figlio e trovò la felicità.
Mauro avrebbe tanto voluto sposare Martina, cercò di ritrovarla ma fu tutto inutile. Era come se fosse sparita nel nulla. Poi venne a sapere che non c’era più. Un conoscente gli raccontò che, dopo la loro separazione, Martina aveva sposato il primo uomo che aveva incontrato, ma si rivelò un violento e la uccise di botte.
Dopo questo, Mauro andò a vivere nello stesso vecchio appartamento dei suoi genitori e cominciò ad affogare i dispiaceri nell’alcol. Restava ore a guardare la foto di Martina e non riuscì mai a perdonare sua madre. «Non voglio unaltra nuora, fai come vuoi!» così disse la madre a suo figlio. Ricordo ancora quando Matteo
Rimettere al suo posto il marito. Racconto Ringrazio di cuore per il sostegno, per i mi piace, i commenti
Sono cresciuto con mia nonna. Le sono ovviamente grato, ma la sua affezione non è mai stata del tutto
La Ricetta di Famiglia Davvero vuoi sposare un uomo conosciuto su internet? chiese Luigia Rossi, scrutando
Ospiti inattesi ovunque Ma queste persone così carine, davvero non possono abitare altrove?
Non ho capito, hai cambiato le serrature? inizia Marco, irritato. Non riesco a entrare da mezzora Le
Ricordo di un tempo, quando la tensione nella nostra cucina di Napoli sembrava non avere fine. Accidenti!
“Che ci fai nel mio laptop?” Un mistero davanti a uno sguardo sconosciuto. “
Perché sei così presto? balbettò Andrea, visibilmente smarrito. Marisa inserì la chiave nella porta di
Venti anni dopo, riconosco in quel ragazzo il mio giovane me stesso
Alla vigilia delle nozze, Arturo sospettava che Marta lo tradisse. Nonostante i suoi giuramenti di fedeltà, non volle ascoltarla. Ma vent’anni dopo, incontrò il figlio di lei. Era il suo ritratto…
Li univa un amore da romanzo: appassionato, unico, immenso. Molti li invidiavano e si intromettevano. I due giovani si preparavano lentamente al matrimonio, che però non si celebrò mai.
La sera prima delle nozze, Marta confidò ad Arturo di essere incinta. Ma invece della gioia, fu accolta da rabbia e sospetto. Arturo decise che lei lo aveva tradito. Ripeteva che non poteva essere rimasta “incinta così in fretta”. Glielo disse in faccia: non le credeva. Ma Marta quel bambino lo mise al mondo.
Molti amici gli dicevano che era uno sciocco. Tutti vedevano quanto Marta lo amasse. Ma lui rimase irremovibile: la storia si ruppe e il matrimonio fu annullato. Le propose persino l’aborto, ma lei si rifiutò. Marta sperò fino all’ultimo in un suo ritorno, ma Arturo non chiamò mai.
Lei non aveva intenzione di chiamare. Arturo era convinto di aver ragione. Iniziarono così nuove vite, ciascuno per la propria strada. Marta si ritrovò da sola a gestire le conseguenze. Anche quando incrociavano i loro cammini, lui faceva finta di non conoscerla. L’aveva vista anche al parco giochi, ma distoglieva sempre lo sguardo, per non ricordare il passato.
La vita di Marta fu dura. Era una madre single, ma non permetteva che le difficoltà le rubassero la felicità. Aveva dovuto rinunciare alla propria felicità personale, ma aveva un angelo a cui dare tutto il suo amore.
Fece di tutto per rendere felice il figlio e non fargli mancare nulla. Lavorava in diversi posti per garantirgli un futuro. Cristiano ringraziava la madre – era il suo sostegno e difensore principale.
Si laureò, fece il militare, trovò lavoro. Crescendo, smise di chiedersi chi fosse il padre: ormai aveva capito. Certo, da bambino Marta gli raccontava storie su suo padre, ma ci aveva davvero creduto? La risposta è evidente.
Cristiano era il ritratto del padre. A vent’anni ricordava ad ogni giorno ad Arturo il ragazzo di cui era stata innamorata. E un giorno, finalmente, i destini si incrociarono: quello di Marta, di Arturo e di Cristiano. Il padre biologico ebbe subito una rivelazione: era impossibile non notare la somiglianza. Li osservò a lungo senza dire una parola.
Solo dopo tre giorni si presentò da Marta e chiese:
– Puoi perdonarmi?
– È passato tanto tempo… – sussurrò Marta.
Fu allora che tornarono vive le storie di papà – e Cristiano, per la prima volta, vide il suo vero padre. Venti anni dopo, riconosco nel ragazzo il mio giovane me stesso. Alla vigilia del matrimonio, Riccardo