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Il conducente dell’autobus Ikarus ha cacciato un’anziana di 80 anni che non aveva pagato il biglietto. La sua risposta è stata solo qualche riga.
Il conducente del pullman, Marco, fermò lautobus perché una nonna di ottanta anni, vestita con un vecchio
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Ho cambiato idea sul matrimonio Archip trascorreva le sue serate fino a tardi nel laboratorio, sempre intento a travasare liquidi tra provette e ad analizzare polveri misteriose sperando di scoprire qualcosa di prezioso dalle radici di una pianta rara. Così preso dal suo lavoro e dai sogni di riconoscimento accademico, Archip, ormai quarantenne, non si accorgeva dello sguardo affascinato di Sofia, la giovane donna delle pulizie arrivata da poco all’istituto. Mentre lui inseguiva le sue formule, Sofia rimaneva ore con lo straccio in mano, non distogliendo gli occhi da lui. Una sera, armata di coraggio, la ragazza gli propose: «Archip Glebovich, lavorate tutto il giorno senza staccare… Che ne dice di una tazza di tè? Ho portato con me il bollitore elettrico, per caso, e delle salsicce fatte in casa.» Appena sentì “salsicce”, Archip lasciò tutto e si sedette a tavola. Sofia tirò fuori le specialità preparate con il macinato portato apposta dalla madre del paese. Archip, restio per la conservazione del cibo, titubò, ma alla fine cedette assaporando le salsicce tra mille dubbi scientifici. A poco a poco tra i due nasceva una complicità: promesse di biscotti per l’indomani, sogni notturni che svelavano una tenera attrazione, e una visita dai genitori di lei che si trasformò in una commedia familiare tutta italiana, tra madri diffidenti, padri giovani e robusti, e un’accoglienza più da dramma napoletano che da incontro formale. Il viaggio nella casa di campagna di Sofia divenne un’esperienza surreale tra la neve, le suocere arcigne e una scenata degna di un film di De Sica o una commedia di Eduardo. L’incontro esplose in urla, rimproveri, accuse di voler trattare Sofia da serva e una fuga rocambolesca tra la neve per Archip, colto addirittura da un malore. Dopo la tempesta, a casa, tra una minestra di anatra e discussioni sulle spese della spesa, Archip capisce una cosa: quella vita non è la sua, e forse, di amore e matrimonio per ora non se ne parla più. Una commedia italiana tra laboratorio e cucina, madri gelose e donne intraprendenti: Archip decide che forse, tutto sommato, il matrimonio può aspettare.
Sai, ti devo raccontare questa storia assurda che mi è capitatasembra uscita da un film italiano degli
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Sara sciolse con attenzione il nodo, mentre sentiva la piccola scarpa tremare tra le sue mani. I lacci erano robusti, nuovi — non come quelli strappati che le davano nel rifugio.
15 ottobre, Milano Diario Ho aperto la fibbia dellosticello di corda con attenzione, sentendo il piccolo
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017
La mia cara mamma. Racconto Marina scoprì di essere cresciuta in una famiglia adottiva. Faticava ancora a crederci. Ma con chi parlarne? I suoi genitori adottivi se n’erano andati, quasi uno dopo l’altro. Prima il papà si era ammalato, si era a letto e non si era più rialzato. Poi la mamma lo aveva seguito. Marina allora sedeva accanto al letto della madre, stringendole la mano debole e senza vita. La mamma era davvero stanca. E improvvisamente Marina notò che la mamma aveva socchiuso gli occhi: – Marinella, figlia mia, io e papà non siamo mai riusciti a dirtelo. Non trovavamo le parole… Ti abbiamo trovata. Sì, sì, trovata nel bosco, piangevi, ti eri persa. Aspettavamo che qualcuno venisse a cercarti. Abbiamo fatto denuncia ai carabinieri. Ma nessuno ti cercava. Forse era successo qualcosa, non lo so. E così ci permisero di adottarti. A casa, nel comò, dove tengo i miei documenti. Ci sono tanti fogli… Corrispondenza, leggili. Perdonaci, figlia mia. La mamma è stanca, e chiuse gli occhi. – Ma che dici, mamma, – Marina, senza sapere cosa dire, accostò la mano della mamma alla guancia – mamma mia, ti voglio bene, e spero che tu guarisca. Ma il miracolo non avvenne. E dopo qualche giorno anche la mamma se ne andò. Forse era meglio se non avesse detto nulla a Marina. A suo marito e ai figli, Marina non raccontò nulla delle ultime parole della nonna. E in fondo anche lei le aveva quasi dimenticate, lasciando la confessione materna in un angolo della memoria. I figli avevano adorato i nonni. E a Marina non interessava turbare tutti con questa inutile verità. Ma un giorno, spinta da un impulso inspiegabile, aprì comunque quella cartella di cui aveva parlato la mamma. Un ritaglio di giornale, richieste, risposte. Marina cominciò a leggere, e non riusciva più a fermarsi. Che genitori meravigliosi! Avevano trovato lei, Marina, di appena un anno e mezzo, nel bosco. Loro avevano già più di quarant’anni. Non avevano figli. E all’improvviso – una bimba che piange, che tendeva le braccia verso di loro. Il maresciallo del paese aveva allargato le braccia – nessuno aveva denunciato la scomparsa di una bambina. L’avevano adottata. Ma la mamma continuava a cercare i suoi parenti. Forse non più per trovarli davvero. Ma per essere sicura che nessuno avrebbe reclamato la loro amata figlia. Marina chiuse la cartella e la nascose in fondo allo scaffale. A che serve questa verità? Dopo una settimana, all’improvviso, venne chiamata in ufficio personale: – Ecco, Marina Pavlovna, la cercano dal suo precedente posto di lavoro. Accanto alla responsabile dell’ufficio sedeva una donna dell’età di Marina: – Buongiorno, mi chiamo Nadia. Ho davvero bisogno di parlarle, – si rivolse in tono riservato alla responsabile, – riguarda le richieste di Ilina, Liuba Ivanovna. Lei è sua figlia, vero? – E mi dicono “dal vecchio lavoro”, – si lamentò la responsabile, – queste faccende personali fuori orario! – Nadia, parliamone fuori, – propose Marina. E uscirono insieme sotto gli sguardi eloquenti dell’ufficio. – Mi scusi, è una storia un po’ strana, ma ho promesso, – nervosamente cominciò Nadia: – Tre anni fa ho incontrato la mia prima maestra. Da piccola frequentavo la scuola elementare a Villabuona. Poi lei se n’era andata. Era rimasta sola, ormai anziana. Mi invitò a prendere il tè. E chiese il mio aiuto. Diceva che la figlia era scomparsa molti anni fa, da piccola. E aveva tenuto una corrispondenza con sua madre. – Mi scusi, Nadia, la mamma è morta, e io non mi occupo di questa storia, – rispose freddamente Marina, e distolse lo sguardo. – Mi scusi, Marina, capisco. È solo che… vede, la maestra Vera Vasileschi è molto malata. Ha un male grave. Le resta poco. Vuole tanto riuscire a ritrovare la figlia. L’ha cercata per tutta la vita. Guardi, mi ha persino dato una ciocca di capelli per il test… può immaginare? Marina stava per chiudere la conversazione, ma qualcosa la fermò: – Dice che è molto malata? Nadia annuì. Marina prese il sacchettino con la ciocca di capelli e promise che si sarebbero tenute in contatto. Dopo una settimana erano insieme in ospedale da Vera Vasileschi. Entrarono in camera e la maestra cercò di mettere a fuoco i loro volti: – Oh, Nadia, sei tu! Grazie, cara, – sorrise ancora un po’ stupita, e guardò interrogativamente Marina. – Vera Vasileschi, ho trovato sua figlia. Questa è Marina, è stata lei a voler venire, – e Nadia porse a Vera Vasileschi una busta. – Cos’è? Anche con gli occhiali non vedrei bene – i suoi occhi cercavano protezione nelle nuove arrivate. – È il risultato dell’esame, – Nadia tirò fuori il foglio, – qui c’è scritto che la parentela è confermata. Marina è sua figlia. Il volto di Vera Vasileschi si illuminò, si trasformò. Non riuscì a trattenere le lacrime di gioia: – Bambine mie, angeli miei, grazie, – e tese le braccia verso Marina: – La mia cara, che felicità, l’ho trovata. Viva, bella, proprio come me da giovane. La mia cara, bambina. Per tutta la vita mi sono svegliata di notte, sentirmi chiamare dal tuo pianto. Non merito perdono. Viva, viva. Ora sono finalmente serena. Dopo poco Nadia e Marina uscirono dalla camera. La maestra era esausta e si era addormentata. – Grazie, Marina, davvero grazie, ha visto com’è grave. Le avete regalato la felicità. Pochi giorni dopo anche Vera Vasileschi non c’era più. Marina strappò tutte le carte della cartella della mamma. Non voleva che nessuno sapesse quella verità inutile. E in fondo, cosa c’era da sapere? Una vera mamma, per Marina, non era mai esistita fuori dai genitori che l’hanno cresciuta. E Vera Vasileschi? Forse una santa menzogna. Avrà fatto la cosa giusta? Lei pensa che sia stata la decisione migliore. In fondo ciascuno risponde davanti a Dio di ogni cosa che ha compiuto.
Cara della mia anima. Racconto Martina scoprì che era cresciuta in una famiglia adottiva. Ancora oggi
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Una figlia per un’amica: Quando la maternità si scontra con tradimenti, povertà e vecchi rancori nella periferia di Torino, Lilia si ritrova incinta e sola con un padre alcolizzato, mentre la zia tenta di mettere le mani sulla sua bambina per affidarla a una coppia benestante; una storia di scelte difficili e coraggio materno che cambierà per sempre il destino di una famiglia italiana.
Un figlio per unamica Quando Bianca era agli ultimi mesi di gravidanza, suo fratello minore era partito
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La vicina dispettosa: cronaca di litigi, gelosie e piccole vendette tra Tamara e la sua ex amica Ludmilla, con un Piero “Motopedone” sempre al centro, pettegolezzi di paese, guerre di pollai e drammi da cortile fino all’inaspettato lieto fine di una pensionata che ritrova l’amore (e una rivincita) nella tranquilla campagna italiana
Diario di Tommasa Non toccare i miei bicchierini di cristallo! ha urlato quella che una volta chiamavo
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Dolce al Forno con i Soldi degli Altri
**Dolce a spese altrui** “Figlio mio, mi sento male… il cuore mi batte forte. Il medico ha
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La Matrigna Cacciò la Povera Ragazza Disabile di Casa fino a Quando un Milionario Non Le Incrociò il Cammino…
La pioggia serale cadeva a dirotto sulle strade di Napoli, lavando via il rossetto che ancora si aggrappava
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Ha messo gli occhi sulla moglie d’altri Durante la convivenza, Dudin si era dimostrato un uomo debole e senza volontà. Tutta la sua giornata dipendeva dall’umore con cui si svegliava. A volte appariva allegro e scherzoso, ma più spesso cadeva in cupi pensieri, bevendo caffè e girando per casa imbronciato, da vero artista tormentato. D’altronde, lavorava come insegnante di arte, educazione tecnica e, sporadicamente, musica (quando la collega di musica era in malattia) alla scuola di paese. Aveva allestito un atelier nella stanza più luminosa della casa, che in realtà la moglie Sofia aveva pensato di destinare ai loro futuri figli. Ma la casa era di lui, perciò Sofia non disse nulla. Così, Dudin riempì la stanza di cavalletti e tubetti di colori, modellando e dipingendo strane figure e vendendo ben poco. Le pareti delle stanze erano ricoperte dalle sue opere che a Sofia non piacevano, e nemmeno agli amici artisti, tranne il vecchio Lev Petrovich Pecherski, che una sera, presa una bottiglia di grappa al caffè, esclamò: «Che pasticcio senza senso! Non c’è una cosa valida in questa casa, a parte la meravigliosa padrona, ovvio!» Dudin prese molto male questa critica, urlò e cacciò in malo modo l’ospite, accusandolo di essere un fallito invidioso. Solo Sofia si preoccupò di scusarsi, ma Lev la prese da parte per dirle che le dispiaceva vederla vivere tra tutta quella bruttezza e che l’anima di Viktor era vuota come le sue tele. Nonostante tutto, Sofia non contraddisse mai il marito e pensava che, con l’arrivo di un figlio, lui avrebbe abbandonato i suoi “capolavori” e trasformato lo studio in una cameretta. Invece col tempo Viktor si raffreddò con lei, smise di portare lo stipendio a casa e lasciò tutte le incombenze della famiglia sulle spalle di Sofia, compresa la cura dell’orto, delle galline e della suocera. Alla notizia della gravidanza, Viktor fu contentissimo, ma Sofia purtroppo perse il bambino. Dopo il tragico evento, Viktor la maltrattò e le chiuse la porta di casa in faccia, accusandola di aver distrutto la loro famiglia. Persino la madre di Sofia aveva venduto la sua casa ed era partita per il Sud Italia con un nuovo compagno, lasciando la figlia senza un posto dove andare. Così, costretta dalle circostanze, Sofia continuò a occuparsi di Viktor, ormai depresso e malato, e cercava di sbarcare il lunario andando al mercato a vendere una delle sue care galline e alcune statuine fatte dal marito. Al mercato, Sofia incrociò lo sguardo gentile di Denis, un ragazzo che comprò subito la gallina, promettendo di regalarla alla madre, amante degli animali, e acquistò tutte le statuette. Ma quello che lo aveva colpito davvero era stata proprio Sofia, così diversa tra la folla, dolce e timida. Da quel giorno, Denis tornò spesso a casa di Dudin, comprando ogni volta una statuina o un quadro, ma fermandosi soprattutto a parlare con Sofia. Ben presto il vero interesse di Denis si fece chiaro: aveva messo gli occhi sulla moglie d’altri. Quando i quadri finirono, Denis chiese a Sofia di lasciare quella casa dove non era felice, prendendola con sé. Col tempo tra i due scoppiò l’amore, e Sofia si sentì finalmente amata e apprezzata per ciò che era. Dudin, dal canto suo, una volta solo realizzò troppo tardi che aveva perso il vero tesoro della sua vita, una donna che l’aveva amato e sostenuto, e che forse nessun’altra avrebbe mai potuto eguagliare. Ha messo gli occhi sulla moglie d’altri.
Desiderai la moglie daltri Quando vivemmo insieme, Montanari si rivelò un uomo debole di carattere e
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Una Donna Incinta Senza Fissa Dimora Salva una Ragazzina Scomparsa Ignorando che Era una Ereditaria Billionaria
Io, Lorenzo, vi racconto di una donna senza tetto, incinta, che salvò una bambina perduta senza sapere
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Quando la Moglie Sparisce: Il Dramma di una Famiglia Italiana tra Tradimento, Inganni e la Lotta per Ricominciare
Guarda, ti racconto una storia che sembra uscita da una di quelle chiacchiere infinite davanti al caffè.
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Nel bene e nel male: la storia di Antonina tra solitudine, speranze e tradimenti in un paesino italiano
Nel bene e nel male Allora, ascolta questa storia, amica mia. Te la racconto come la direi con una tazza
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Dal Profondo del Cuore: Un Viaggio di Emozioni e Passioni
Io, Alessandro Rossi, mi trovavo in cucina quando la mia moglie, Ginevra Bianchi, mi lanciò: «Ascolta
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Moglie e suocero Carina faceva solo finta di voler conoscere i genitori di Davide. In fondo, cosa le importava davvero di loro? Non era certo con loro che avrebbe vissuto, e dal padre di lui, che pareva benestante, non c’era da aspettarsi altro che problemi e sospetti. Eppure, se hai deciso di sposarti, devi recitare la parte fino in fondo. Così Carina si era vestita semplice, per apparire come una ragazza dolce e a modo. L’incontro con i genitori dello sposo è sempre una prova difficile e piena di insidie nascoste; se poi sono anche persone intelligenti, diventa un vero esame di resistenza. Davide pensava dovesse essere rassicurata: – Non preoccuparti, Carina. Mio padre sembra burbero, ma in realtà è accomodante. Non ti diranno nulla di terribile, e ti adoreranno. Papà è un po’ particolare, ma mamma… è la prima allegrona, – la rincuorava davanti al portone di casa. Carina aveva solo sorriso, scostando una ciocca dai capelli. Papà burbero, mamma simpatica. Bel mix. Rise tra sé e sé. La casa non la impressionò. Ne aveva viste di più fastose. Furono accolti subito. Carina non era poi così agitata. Gente come tutta l’altra, pensava. Aveva già sentito parlare da Davide di Nina, la mamma: da anni casalinga, sempre in viaggio con le amiche, niente di speciale. Il padre, Valerio, forse poco espansivo, ma almeno riservato. Solo il nome le suonava fin troppo familiare… Li accolsero… E Carina si bloccò sulla soglia. Lì era la fine… La futura suocera le era del tutto sconosciuta, ma il futuro suocero lo riconobbe subito… Si erano già incontrati. Tre anni prima. Non spesso, ma di certo con reciproca convenienza. Nei bar, negli hotel, nei ristoranti. Naturalmente, né la moglie di Valerio né suo figlio ne sapevano nulla. Ecco la resa dei conti. Anche Valerio la riconobbe. Nei suoi occhi brillò qualcosa – forse sorpresa, forse un presagio di dispetti – ma restò in silenzio. Davide, ignaro, le presentò i genitori con entusiasmo. – Mamma, papà, vi presento Carina. La mia fidanzata. Prima non l’ho portata solo perché è così timida. Ops… Valerio le tese la mano. La stretta fu decisa, perfino dura. – È un piacere, Carina, – disse. E nella voce vibrò quella nota sottile… era rabbia? O forse minaccia? O… Carina cercava di non venir smascherata subito: – Il piacere è mio, dottor Valerio, – rispose, mascherando l’adrenalina che l’invase. Ma… niente. Valerio si limitò a offrirle la sedia a tavola con un sorriso forzato. Forse la rovina aspettava dopo… Ma non accadde nulla. Carina capì: lui non poteva raccontare nulla del passato per non smascherare anche sé stesso davanti alla moglie. Quando riprese fiato, la serata continuò serena. Nina raccontava aneddoti dell’infanzia di Davide, Valerio seguiva Carina facendo domande sul lavoro. Lui sapeva bene chi era lei. Ora lo stuzzicava con ironia sottile, ma non riusciva più a ferirla. Si concesse perfino qualche battuta, e Carina rise suo malgrado. In quei giochi di sguardi, le allusioni erano solo per loro due. Ad esempio, quando fissandola, commentò: – Sa, Carina, lei mi ricorda tanto una mia vecchia… collega. Anche lei, molto sveglia. Sapeva sempre come conquistare gli altri. Chiunque. Carina non perse il colpo: – Ognuno ha i suoi talenti, dottor Valerio. Davide, nella sua euforia d’innamorato, vedeva solo la donna dei suoi sogni, ignaro delle sfumature. E quello, forse, era il dettaglio più amaro. Quand’era il turno dei viaggi, Valerio la scrutò: – Io preferisco posti isolati, senza confusione. Per potermi fermare a pensare, a leggere un buon libro. E lei, Carina, che tipo di luoghi predilige? L’aveva messa alla prova. – Mi piace la gente intorno, il rumore, la confusione, – rispose tranquilla, – anche se a volte troppe orecchie sono rischiose. Per un attimo, Nina scrutò Carina con attenzione, forse un dubbio le sfiorò la mente; ma poco dopo lo scacciò. Valerio lo sapeva bene: Carina non amava la solitudine, e ne conosceva il motivo. A fine serata, Valerio abbracciò Davide: – Figlio mio, tienila stretta. Lei… è speciale. Suonava insieme come un complimento e una presa in giro. Solo Carina, però, capiva davvero. Carina sentì che la temperatura era calata di colpo. “Speciale”. Proprio quella parola. *** Quella notte Carina non dormiva. Riviveva l’incontro e pensava a come gestire una situazione improvvisamente complicata. Sapeva che anche Valerio era sveglio. Lui, per la sorpresa. Lei, per tutto il resto. Si alzò in silenzio, mise felpa e uscì dalla stanza. Scese le scale facendo apposta un po’ di rumore, sperando che, se qualcuno era sveglio, l’avrebbe sentita. Andò in veranda, sicura che Valerio sarebbe apparso. Infatti arrivò. – Non riesci a dormire? – chiese avvicinandosi. – Il sonno non arriva, – rispose lei. C’era tensione, il profumo del suo dopobarba noto e pungente. Valerio la osservava. – Cosa vuoi da mio figlio, Carina? – chiese senza giri di parole, – So perfettamente cosa sai fare, chi sei davvero. So che hai avuto tanti uomini come me nella tua vita. E so che ti sono sempre interessati solo i soldi. Lo hai sempre dichiarato, anche se per metafore. Quindi, cosa vuoi da Davide? Se lui voleva evitare i ricordi, anche Carina non si sarebbe mostrata tenera. – Lo amo, dottor Valerio, – canticchiò, – Non ne ho il diritto? Non era convinto. – Amore, tu? Mi fai ridere. So chi sei. E dirò tutto a Davide. Dirò cosa facevi, chi sei davvero. Pensi che ti sposerà dopo? Carina gli si avvicinò a un soffio dal volto, occhi negli occhi. – Racconta pure, dottor Valerio, – sussurrò, lenta, – Ma allora dovrai raccontare anche a tua moglie il nostro segreto. – Sarebbe… – Non è ricatto. È parità. Se tu racconterai come ci siamo conosciuti, ci sarà da spiegare tutto. E sarò molto dettagliata. – Sono storie diverse… – Davvero? Diresti lo stesso a tua moglie? Valerio si irrigidì. Il tentativo di minacciarla era fallito. Aveva perso la partita. Erano legati alla stessa sorte. – Cosa vorresti dirle? – Tutto. Anche a Davide. Racconterò che marito hai saputo essere, a cosa ti trattenevi in ufficio la sera. Tanto, non avrò più nulla da perdere. Vuoi davvero salvare tuo figlio da me? Provaci. Scelta difficile. Impedire il matrimonio di Davide equivaleva a preparare il terreno per il proprio divorzio. – Non ne avrai il coraggio. – Io? E tu sì? Io no, se tu no. Ma se parli, parlo. E per te sarebbe la fine. Tua moglie ci tiene molto, alla lealtà. Carina ricordava bene le confessioni strappate a Valerio nelle sue ubriacature: che Nina non gli avrebbe perdonato nulla. E sapeva che non bluffava. – Va bene, – cedette lui, – Non dirò una parola. Ma neanche tu, chiaro? Dimentichiamoci tutto. Per quello, Carina non aveva più paura. Lui avrebbe perso più di lei. – Come vuoi, dottor Valerio. La mattina dopo lasciarono la casa dei genitori di Davide. Mentre la moglie di Valerio salutava Carina chiamandola già “figlia”, Valerio la fissava con astio. Sapeva che non avrebbe mai potuto mettere in guardia il figlio da quella donna, per paura di distruggere la propria vita. E Nina non sarebbe certo uscita dal matrimonio senza portarsi via metà di tutto. Pure Davide difficilmente lo avrebbe mai perdonato. In seguito Carina e Davide tornarono a casa dei suoi per due settimane di vacanza. Valerio cercava di evitarla, ma un giorno, rimasto solo, la curiosità fu più forte di lui. Frugò nella borsa di Carina tra trucchi, agendine, e trovò un test di gravidanza con due linee nette. – Pensavo che il peggio fosse tuo matrimonio con… No, questa sì che è una catastrofe! – rimise il test nella borsa, non riuscendo a chiuderla in tempo. Carina lo colse sul fatto. – Che male educato frugare tra le cose degli altri, – disse sarcastica, ma non sembrava davvero turbata. Valerio non negò: – Sei incinta di Davide? Carina si avvicinò, prese la borsa dalle sue mani e lo guardò fisso. – Sembra che abbiate appena rovinato la sorpresa, dottor Valerio. Valerio era furioso. Ora Carina era davvero incatenata a suo figlio e lui non poteva più ribaltare la situazione senza rovinarsi del tutto. *** Passarono nove mesi… e poi altri sei. Davide e Carina crescevano la piccola Alice. Valerio evitava di vederli. Non considerava Alice sua nipote. Carina lo metteva in agitazione. Temeva la sua freddezza verso Davide e il passato che l’ombra portava. E poi di nuovo. Nina preparava la valigia per andare a trovare Davide e Carina. – Vieni anche tu, Valerio? – No, mal di testa. – Ancora? Sta diventando preoccupante. – Solo stanchezza. Vai senza di me. Valerio, come sempre, diede la colpa a mille acciacchi. Non riusciva a sopportare di vedere Carina. Ma non riusciva neanche a confessare tutta la verità. Fu una serata noiosa, tra pensieri ossessivi. Lessere. Sfogliò un libro. Si accorse che Nina tardava. Era già notte, il telefono spento. Chiamò Davide. – Davide, tutto bene? Tua madre è partita? Non è rientrata. – Papà, sei l’ultimo con cui vorrei parlare adesso! E riattaccò. Valerio era pronto a partire quando vide arrivare Carina in macchina. Pensava che quell’incontro lo avrebbe fatto impazzire. – Che ci fai qui? – gridò, – Che succede? Carina era calma. Si versò un bicchiere di vino. – Disastro totale. – Quale disastro? – Il nostro. Davide ha trovato vecchie foto di noi due su un sito di quel locale, “L’Oasi”, ricordi? Era una festa di quattro anni fa. Davide voleva prenotare per l’anniversario e guardando le foto ci ha trovati. Il fotografo le ha pubblicate tutte. Ora Davide è furioso, tua moglie vuole chiedere il divorzio. E io, come speravi, forse divorzierò da tuo figlio. Valerio la fissava senza parole, mentre nella mente scorrevano a ritroso gli eventi. Quel sito, la festa… Gli era parso allora che sarebbe tutto finito male ma nessuno avrebbe potuto immaginare una simile coincidenza! Si sedette a terra esausto. – E perché sei venuta qui? – Avevo bisogno di scappare, – sorrise Carina, – A casa è il caos, Alice è con la tata. Vino? Gli offrì il suo vino preferito. Sedettero in veranda. Solo le cicale rompevano il silenzio. – È tutta colpa tua, – disse lui. Carina annuì fissando il bicchiere. – Vero. – Sei insopportabile. – Questo è. – Non ti dispiace neanche per Davide. – Per lui sì, ma per me di più. – Ami solo te stessa. – Non lo nego. Lui le prese il viso tra le mani, costringendola a guardarlo. – Sai bene che io non ti ho mai amata, – sussurrò. – Lo so, ci credo volentieri. *** La mattina dopo, quando Nina arrivò per tentare una riconciliazione, trovò Carina e Valerio ancora insieme, addormentati. – Chi c’è? – disse Carina, svegliandosi. – Sono io, – rispose Nina osservando la scena della sua vita che andava in frantumi. Carina le rivolse solo un sorriso. Valerio si svegliò poco dopo, ma non andò a cercare la moglie.
Moglie e padre Allegra faceva solo finta di voler conoscere i genitori di Riccardo. Ma a cosa le sarebbero serviti?
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012
La casa di nessuno Sergio si svegliò senza sveglia, come sempre, alle sei e mezza. In casa regnava il silenzio, solo il frigorifero brontolava piano in cucina. Rimase ancora un attimo disteso, ascoltando quel ronzio familiare, poi allungò la mano verso il davanzale a cercare gli occhiali. Fuori l’alba era grigia, poche auto sfrecciavano sul selciato bagnato. Fino a qualche anno prima, a quest’ora, si preparava per andare a lavorare. Si alzava, andava in bagno, sentiva il vicino accendere la radio oltre il muro. Ora il vicino continuava ad accender la radio, e lui invece rimaneva lì a chiedersi cosa avrebbe fatto della giornata. Ufficialmente era in pensione da tre anni, ma per abitudine continuava a vivere seguendo un orario preciso. Si alzò, indossò i pantaloni della tuta, andò in cucina. Mise su il bollitore, prese un pezzo di pane dal portapane. Mentre l’acqua scaldava, si avvicinò alla finestra. Settimo piano, condominio anni ‘70, cortile con i giochi per bambini. Sotto la finestra c’era la sua vecchia Panda, coperta da un velo di polvere. Pensò che doveva proprio passare dal box, vedere se il tetto non avesse infiltrazioni. Il box era in un autorimessa, tre fermate di autobus più in là. Una volta là ci passava metà dei weekend, armeggiando con la macchina, cambiando l’olio, chiacchierando di calcio e benzina coi vicini. Poi tutto era diventato più comodo: officina, gomme, negozio online. Ma il box non aveva mai voluto lasciarlo. Ci teneva attrezzi, gomme vecchie, scatole di cavi e assi di legno, “roba da sistemare”, come diceva lui. E la casa in campagna. Un casolare nel consorzio “I Girasoli”, fuori dalla città. Legno vecchio, veranda stretta, due stanze e una minuscola cucina. Chiudeva gli occhi e vedeva le tavole del pavimento, le crepe, sentiva la pioggia picchiare sul tetto. La casa era arrivata a lui e sua moglie dai genitori di lei. Più di vent’anni fa, quasi ogni weekend ci andavano insieme ai figli. Sistemavano l’orto, friggevano patate, mettevano la radio sullo sgabello. Sua moglie non c’era più da quattro anni. I figli erano cresciuti, sistemati, nelle loro case, con le proprie famiglie. Casa in città, box, casa in campagna: tutto era rimasto, come una bussola familiare. E lui sentiva che finché quei luoghi resistevano, anche la sua vita aveva ancora traiettoria. Il bollitore fischiò. Sergio preparò il tè e si sedette a tavola. Sulla sedia di fronte c’era ancora il maglione piegato dal giorno prima. Mangiò il pane guardando l’indumento e pensò alla conversazione della sera precedente. Ieri erano passati i figli: il figlio con la moglie e il nipotino, la figlia col marito. Hanno bevuto il tè, chiacchierato sulle vacanze, poi come spesso succede ultimamente si è parlato di soldi. Il figlio si lamentava del mutuo; la figlia dei costi dell’asilo e delle attività per i bambini. Li ascoltava e annuiva. Ricordava quando i soldi erano contati anche per lui, ma allora non aveva né casa in campagna né box, solo una stanza in affitto e tante speranze. Poi, un po’ esitante, il figlio aveva detto: — Papà, con Anna ci stavamo pensando… Ne parlavamo anche con Caterina. Non sarebbe il caso che tu vendessi qualcosa? La casa fuori, magari. O il box. Tanto ci vai raramente. Sergio rise, cambiò argomento. Ma quella notte non dormì. In testa girava sempre quella frase: “Tanto ci vai raramente”. Finito il pane e il tè, mise via la tazza. Erano le otto. Decise: oggi sarebbe andato in campagna. Dopo l’inverno doveva pur vedere com’era la situazione. E magari, pensò, dimostrare qualcosa prima di tutto a sé stesso. Si vestì caldo, prese i mazzi di chiavi di box e casa di campagna. In corridoio si guardò allo specchio nella vecchia cornice: tempie grigie, occhi un po’ stanchi ma ancora vivi. Non ancora un vecchio. Raddrizzò il colletto e uscì. Al box fece sosta per raccogliere qualche attrezzo. La serratura cigolò, la porta si spalancò con il solito scatto. Odore di polvere, benzina, stracci. Scaffali pieni di barattoli colmi di bulloni, scatole di cavi, una cassetta con scritto “Radio Italia ’95” a pennarello. Le ragnatele tremolavano sul soffitto. Sguardo sugli scaffali: il cric che aveva comprato per la sua prima auto, le tavole che voleva usare, anni fa, per fare una panca in giardino. Mai fatta, ma le tavole aspettavano. Prese la cassetta degli attrezzi, alcune taniche vuote, chiuse il box e partì. Fuori città, dopo un’ora di strada fra campi e neve ormai sciolta, il consorzio di villette era ancora deserto. Troppo presto per la stagione. La solita custode incappottata gli fece un cenno col capo. Il casolare lo accolse con la stessa immobilità delle mezze stagioni: steccato di legno, cancello un po’ storto. Infilò la chiave, percorse il vialetto stretto fino alla veranda; sotto le suole foglie rinsecchite. Dentro odorava di chiuso e legno. Sergio spalancò le finestre, scrollò la vecchia coperta, mise tutto in ordine. In cucina, la vecchia casseruola smaltata in cui bollivano la composta. Appesi all’ingresso i mazzi di chiavi, una con l’etichetta “capanno”, dove teneva gli attrezzi da giardinaggio. Girava per le stanze, carezzava i muri, le maniglie. Nella stanza dei figli, il letto a castello: sul piano alto un orso di pezza, un’orecchia rattoppata col nastro isolante, memoria di un pianto lontano. Uscì fuori: la neve sparita lasciava aiuole nere, umide. All’angolo, il barbecue arrugginito. Ricordò le grigliate, il tè seduti in veranda con la moglie, le risate degli altri nel vento. Sergio sospirò e si mise al lavoro: pulì il vialetto, sistemò la tavola traballante, controllò il tetto del capanno. Dal capanno prese una sedia di plastica, la mise al sole e ci si sedette. Il sole si fece più caldo. Guardò il telefono: chiamata del figlio la sera prima, messaggio della figlia “dobbiamo parlarne con calma, papà, ragioniamo con buonsenso, ti vogliamo bene”. Buonsenso: ormai la parola più ricorrente in famiglia. Buonsenso, cioè non lasciare soldi “a marcire” in una proprietà. Buonsenso, cioè non chiedere sforzi fisici eccessivi a un pensionato. Buonsenso, cioè aiutare i giovani, finché uno c’è. Li capiva, davvero. Ma adesso che era lì, seduto in quel cortile col vento e il cane che abbaiava in lontananza, tutto quel “buonsenso” gli sembrava lontano. Lì, non c’era da fare i conti. Fece il giro del giardino, chiuse la casa, rimise il grosso lucchetto. Tornò in città. A casa, nel pomeriggio, trovò un biglietto sul tavolo: “Papà, passiamo stasera a parlare. S.” Capì: la vera discussione sarebbe stata quella sera. Vennero in tre: figlio, nuora, figlia. Il nipote dalla suocera. In cucina sederono attorno al tavolo. Tè, biscotti, caramelle che rimasero intatti. Qualche frase di circostanza, poi la figlia prese coraggio: — Papà, parliamo seriamente. Non vogliamo metterti pressione, ma dobbiamo decidere insieme. Sergio sentì uno strappo, ma annuì: — Ditemi pure. Il figlio cominciò: — Hai questa casa, la casa in campagna e il box. La casa in città è sacra, non ne parliamo. Ma la casa fuori… ti pesa. Orto, tetto, staccionata. Ogni anno ci spendi soldi. — Oggi ci sono stato, — disse Sergio piano. — Va tutto bene. — Oggi sì, — intervenne la nuora, — ma in cinque o dieci anni? Non sei eterno. Scusami, ma bisogna pensarci. Sergio non rispose. Quelle parole sulla non eternità erano vere ma dure. La figlia cercò di addolcire: — Papà, non diciamo di disfarcene domani. Possiamo vendere la casa in campagna e il box, dividere i soldi. Una parte resta a te, il resto a noi. Chiudiamo l’ipoteca, tu ci hai sempre detto che vuoi aiutare. E lui sì, lo aveva detto. Quando la pensione era fresca e ci arrotondava con qualche lavoro. Credeva che avrebbe potuto aiutare ancora a lungo. — Io aiuto già, — disse. — Tengo mio nipote, faccio la spesa. Il figlio sorrise nervoso: — Papà, non è la stessa cosa. Adesso serve una somma, vera. Lo vedi anche tu le rate. Non vogliamo tutto, ci basta la parte “ferma”. La parola “immobile” suonava estranea in quella cucina. Sergio sentì un muro di cifre e tabelle tra loro. Bevve un sorso di tè già freddo. — Per voi sono beni, — disse. — Per me sono pezzi di vita. Il box l’ho tirato su io e mio padre, con le mani. La casa in campagna… là siete cresciuti. La figlia abbassò lo sguardo. Il figlio, dopo una pausa, si fece più dolce: — Lo sappiamo, davvero. Ma ci vai poco. Sta lì. Da solo non la reggi. — Oggi ci sono stato, — ripeté Sergio. — Va tutto bene. — Oggi — disse il figlio — e la volta prima? In autunno? Sii realista, papà. Il silenzio fu lungo. In lontananza l’orologio ticchettava. Sentì che parlavano di lui come di un progetto: ottimizzare, ridurre, gestire l’eredità. — Va bene, — chiese. — E cosa proponete? Il figlio si animò. Avevano evidentemente pianificato tutto. — Abbiamo già trovato un’agenzia. Puoi ricavare una cifra interessante dalla casa e dal box. Facciamo noi tutto: visite, pratiche. Tu dovrai solo firmare una delega. — E la casa di qui? — chiese Sergio. — Quella resta tua, — rispose subito la figlia. — Quella è casa tua. Annui. “Casa”— che parola. Era solo l’appartamento? O anche la casa fuori e il box, dove aveva vissuto le sue giornate migliori? Si alzò, andò alla finestra. I lampioni accesi, stesso cortile di vent’anni prima, solo le auto e i bambini cambiati. — E se non volessi vendere? — chiese senza voltarsi. Silenzio. La figlia disse piano: — Papà, decidi tu, ovvio. Ma… noi ci preoccupiamo, ti vediamo stanco. — È vero, — annuì Sergio. — Ma sono ancora in grado di decidere dove andare e cosa fare. Il figlio sospirò: — Non vogliamo litigare. Ma, vista da fuori, sembra che tu ti aggrappi a queste cose. Per noi è dura — coi soldi, con la testa. Se capitasse qualcosa, chi sistemerebbe tutto? Sergio sentì il senso di colpa: anche lui aveva pensato a quando non ci sarebbe più stato, e i figli alle prese con pratiche e divisioni. Tornò al tavolo. — E se… se la casa la intestassi a voi, ma io potessi andarci finché sto bene? La figlia e il figlio si guardarono. La nuora si fece seria. — Papà, così la questione resta aperta. Noi non possiamo andarci spesso come vuoi tu. Abbiamo i nostri problemi. — Non pretendo che ci andiate, — rispose. — Finché posso, faccio io. Poi… farete voi. Un compromesso: per sé il diritto di tornarci, per loro la sicurezza che è già tutto a posto. La figlia rifletté. — Può essere, — disse. — Ma noi, onestamente, lì non ci vivremo mai. Stiamo pensando di trasferirci in un’altra città. Sergio trasalì. Non lo sapeva. Il figlio rimase sorpreso. — Non mi avevi detto niente, — disse. — È solo un’idea, — ribatté la sorella. — Ma la casa fuori per noi non ha futuro. Colse quella parola: “futuro”. Per i figli il futuro era altrove, per lui era tra queste mura e quel terreno. Altri venti minuti di discussioni: loro portavano cifre e progetti, lui ricordi. Loro la salute, lui la voglia di non terminare da pensionato immobile. Alla fine, esausto, il figlio sbottò: — Papà, non potrai sempre scavare aiuole. Arriverà il giorno che non ci andrai più. Che ne sarà, poi? Resterà a marcire? Sergio si arrabbiò: — Per te sono macerie? — chiese. — Là hai passato l’infanzia. — L’infanzia, — rispose il figlio. — Ma adesso ho altre priorità. Parole sospese. La figlia tentò di mediare: — Sasa’, dai… Sergio sentì che parlavano lingue diverse. Per lui quei posti erano la vita, per loro un ricordo, nulla più. Si alzò. — D’accordo — concluse. — Ci penso. Non adesso, non domani. Datemi tempo. — Papà, — la figlia, — anche noi non possiamo aspettare troppo. Abbiamo la rata tra un mese… — Capisco, — la interruppe. — Ma anche voi capite me. Non è vendere un vecchio armadio. Si salutarono. In corridoio si infilavano le scarpe a lungo. La figlia lo abbracciò: — Non ce l’abbiamo con la casa, papà. Abbiamo solo paura per te. Lui annuì, senza riuscire a parlare. Quando la porta si chiuse, la casa si riempì di silenzio. Sergio andò in cucina, contemplò le tazze e il vassoio con i biscotti avanzati. Si sentì svuotato. Rimase così per tanto tempo. Poi andò in soggiorno, prese la cartella con i documenti: il catasto, i rogiti, lo schizzo del terreno. Sfiorò con il dito i disegnini delle aiuole, come fossero veri sentieri. Il giorno dopo tornò al box. Bisognava fare qualcosa, tenersi occupato. Aprì i portoni per far entrare la luce. Sistemò gli attrezzi, buttò roba vecchia: pezzi rotti, bulloni arrugginiti, cavi che teneva “perché non si sa mai”. Il vicino di box, Carlo, passò a salutarlo. — Come mai ripulisci tanto? — Faccio ordine, — rispose Sergio. — Mi chiedo cosa serve ancora, cosa no. — Fai bene. Io l’ho venduto. Ho aiutato mio figlio a prendere la macchina. Ora non ho il box, ma lui è contento. Sergio non commentò. Carlo se ne andò, lasciandolo con i suoi pensieri. Vendere — figlio contento. Semplice come dare via un vecchio piumone. Prese in mano una chiave inglese, la passò tra le dita. Ricordò quando il figlio piccolo voleva imitare papà; allora credeva che sarebbero rimasti sempre complici di quella lingua fatta di chiodi e olio. Ora invece era diventata una lingua straniera. Quella sera, ripresi i documenti, telefonò alla figlia: — Ho deciso, — disse. — La casa fuori la intesto a voi due. Ma niente vendita, per ora. Ci andrò finché ce la faccio. Dopo, vedete voi. Sul telefono un lungo silenzio. — Davvero sei sicuro, papà? — lei. — Sì, — rispose, anche se un po’ di dubbio dentro ancora gli restava. Ma tanto, non c’erano alternative. — Ok, allora vediamoci domani e organizziamo. Rimase seduto in cucina, strano misto di stanchezza e sollievo. Aveva deciso: ora il futuro era scritto, anche se non prometteva serenità. Una settimana più tardi andarono dal notaio. La donazione fu firmata. Sergio sentì la penna tremargli in mano. Il notaio spiegava, i figli ringraziavano. — Grazie papà, ci aiuti tanto, — diceva il figlio. Annuiva, ma dentro sapeva: non era solo lui a soccorrere loro, erano anche loro a liberarlo dal pensiero di “dopo”. Ora “dopo” era su carta. Il box, però, lo tenne. Per ora. I figli gli suggerirono di venderlo, ma fu irremovibile. “Mi serve, — disse, — per non impigrirmi in poltrona”. Questo lo capirono. La vita non cambiò molto. Sempre nel suo appartamento, ogni tanto in campagna, ora come ospite. Ma le chiavi le aveva ancora e nessuno glielo impediva. La prima volta dopo le firme tornò là da solo, in un giorno di aprile sereno. In macchina pensava: adesso non è più mio. È degli altri. Ma al suono dei vecchi cardini e dei suoi passi sul vialetto, il senso di estraneità svanì. Entrò, appese la giacca, tutto era al suo posto: il letto, il tavolo, l’orso. Si sedette allo sgabello presso la finestra. La luce disegnava la polvere. Passò la mano sul legno sentendo tutte le sue irregolarità. Pensò ai figli con i loro pensieri da adulti, e a sé stesso con i suoi desideri ormai legati più alle stagioni che ai progetti. Arrivare a un’altra primavera, girare ancora con la zappa, sedere in veranda d’estate. Sapeva che — tra mesi o anni — l’avrebbero venduta. Lui non avrebbe potuto opporsi. Quando sarebbe stato troppo stanco per andarci, sarebbe finita lì. E sarebbero stati razionali. Ma ora la casa resisteva. Il tetto teneva. Nel capanno, le pale in ordine. Sull’orto, i primi germogli. Uscì. Fece il giro del perimetro; sui giardini vicini la gente tornava, qualcuno già piantava i pomodori. La vita continuava. Si rese conto che la paura che sentiva era soprattutto quella di sentirsi di troppo. Questi luoghi erano la prova che era ancora nel mondo. Poteva rimediare, aggiustare, piantare. Adesso quella prova era fragile. I fogli dal notaio dicevano il contrario, ma le abitudini erano la sua certezza. Prese il termos, si versò il tè. Un po’ amaro, ma meno della sera della discussione. Aveva fatto la sua scelta. Aveva dato ai figli un pezzo di ciò che era stato “casa”, ma aveva ottenuto ancora qualcosa: il diritto di esserci, non per contratto ma per memoria. Guardò la porta, il vecchio chiavistello, la chiave scaldata tra le dita. Un giorno sarebbe passata ai figli, forse agli acquirenti, che non avrebbero mai saputo tutto quello che racchiudeva. Pensando questo si sentì insieme triste e sereno. Le cose cambiano, le case passano di mano. Quello che conta è viversele, finché le senti tue. Finito il tè, si alzò. Andò al capanno a prendere la zappa. Andava vangata almeno un’aiuola. Per sé. Non per i futuri proprietari, non per i figli che già contavano le rate. Per sé, per sentire la terra. Affondò nella terra la zappa, spinse col piede sulla traversa. La zolla si ribaltò, nera e umida. Inspirò forte, continuò. Andava piano. La schiena doleva. Ma con ogni colpo sentiva un po’ del peso sparire. Come se scavasse tra la terra e le sue paure. Alla sera si sedette in veranda, asciugandosi il sudore. Sul prato lunghe zolle rigirate, nel cielo una striscia rosa. Di là una merla gridava. Guardò la casa, le orme sull’orto, la zappa appoggiata al muro. Pensò a domani, al prossimo anno, tra cinque anni. Non c’erano risposte. Ma, seduto lì, sentiva di essere, ancora un po’, al suo posto. Entrò in casa, spense la luce, chiuse le porte. Sulla veranda esitò, ascoltò il silenzio. Poi girò la chiave. Il ferro scattò. Mise la chiave in tasca e tornò verso la macchina lungo il vialetto, attento a non calpestare la terra appena smossa.
Casa di Nessuno Sergio si svegliò senza bisogno della sveglia, come sempre, alle sei e mezza.
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048
La moglie ha fatto le valigie ed è sparita nel nulla: lui le ha tolto il diritto di scegliere, ma ora si ritrova solo con un figlio che non sa crescere e una sorella pronta a sfidarlo per aiutare sua cognata a ricominciare da zero.
19 marzo Questa notte ho dormito poco. Mi sembra di oscillare tra rabbia, tristezza e stanchezza, senza
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014
La lettera che non è mai arrivata
Lettera che non è mai arrivata Era una sera come tante altre a Bologna; linverno aveva già tinto il cielo
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0242
— Ai genitori: il mio appartamento, a me una casa in affitto? No, caro, a te una casa in affitto, a me la libertà!
I genitori la mia casa, a me un affitto? No, tesoro, a te spetta laffitto, a me la libertà!
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053
La suocera mi ha distrutto il prato della casa in campagna per farci l’orto e io l’ho costretta a rimettere tutto a posto come prima
Paolo, sei sicuro che non abbiamo dimenticato la carbonella? Lultima volta ho dovuto correre al minimarket
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0110
La badante della moglie: la storia di Lidia che lascia il paese, un matrimonio fallito e i giudizi della madre, per cercare fortuna nella città. Tra speranze d’amore e un nuovo inizio come assistente, finisce coinvolta nella vita di Edgardo, un vedovo benestante con una moglie malata, tra promesse di matrimonio e inganni per una casa che forse non sarà mai sua. Un racconto sulle illusioni, i compromessi e la forza di ricominciare.
Badante per la moglie In che senso? mi parve di non aver sentito bene. Dove dovrei andarmene?
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023
Don Fernando Ruiz uscì sulla veranda, sorreggendosi al suo bastone di legno.
Don Francesco Bianchi uscì sulla veranda, appoggiandosi al suo bastone di legno. Laria profumava di fiori
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I parenti si sono offesi perché non li ho lasciati dormire nella mia nuova casa: la storia di come ho dovuto difendere la mia tranquillità dagli “ospiti improvvisi” e ho finalmente imparato a dire no, anche alla famiglia
I parenti si sono offesi perché non li ho fatti restare nella mia nuova casa per la notte Caterina, ma
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060
È già un altro? Galina avrebbe almeno pensato a cosa direbbe la gente – bisbigliavano i vicini, vedendo un uomo nel cortile della vedova.
**12 giugno 2023** “Ma guarda un po! Che penserà la gente?” bisbigliavano i vicini quando
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Con la mia ex: Un viaggio tra ricordi e nuove scoperte
Andrea, non puoi semplicemente mandare via la bambina! È piccola, in una città che non è la sua.
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0179
Non abbiamo fatto entrare nostra figlia in casa — Ma perché non l’avete fatta entrare? — Veronica trovò il coraggio di chiedere la domanda che più la tormentava. — Prima l’avete sempre fatta entrare… La madre rise amaramente. — Perché ho paura per te, Nica. Pensi che non vediamo come ti nascondi quando tua sorella torna a casa nel cuore della notte? Come nascondi i libri perché lei non te li rovini? Lei ti guarda e si innervosisce. Si arrabbia perché tu sei “normale”. A te la vita ha riservato altro, la sua invece lei l’ha affogata nell’alcol… Veronica abbassò lo sguardo, fermandosi sopra il libro aperto — dall’altra stanza ricominciava l’ennesimo scandalo. Il padre era appena rientrato, la giacca ancora addosso, fissava il telefono e urlava nel corridoio. — Non provare a imbrogliarmi! — ruggiva al telefono. — Dove hai buttato via tutto? Sono passate due settimane dalla paga! Due settimane, Larisa! Dalla cucina Tatiana fece capolino. Rimase ad ascoltare un attimo il monologo del marito, poi chiese: — Ancora? Valerio fece solo un gesto stanco con la mano e attivò il vivavoce: il pianto disperato dall’altro lato era subito percepibile. La sorella maggiore di Veronica aveva un talento naturale nel impietosire anche le pietre. Ma dopo tanti anni di sofferenza, i genitori si erano fatti la corazza. — Che vuol dire “ti ha sbattuta fuori”? — Valerio iniziò a percorrere il lungo e stretto corridoio. — Fa bene. Chi sopporterebbe più questo stato di abbandono continuo? Ti sei mai guardata allo specchio? Hai trent’anni, ma la faccia sembra quella di un cane bastonato. Veronica socchiuse la porta della sua stanza, appena due centimetri. — Papà, ti prego… — le lacrime si interruppero di colpo. — Lui mi ha buttato tutte le cose in strada. Non ho dove andare. Fuori piove, fa freddo… Posso venire da voi, solo per qualche giorno, giuro. Solo per riposarmi un po’. La madre fece un gesto, avrebbe voluto prendere il telefono, ma Valerio si girò di scatto negandoglielo. — No! — tagliò corto. — Non metterai più piede qui. Ci siamo messi d’accordo, ti ricordi? Dopo che hai portato la TV al Monte dei Pegni mentre eravamo al lago, questa casa per te è chiusa! — Mamma! Mamma, digli qualcosa! — urlò la voce al telefono. Tatiana si coprì il volto con le mani. Le spalle le tremavano. — Larisa, come hai potuto… — sussurrò senza guardare il marito. — Ti abbiamo portata dal medico. Avevi promesso. L’ultima cura, dissero che sarebbe durata tre anni. Non hai resistito nemmeno un mese! — Le vostre cure sono fandonie! — ribatté Larisa, cambiando tono in un attimo dal piagnisteo all’aggressività. — Si sono solo presi i vostri soldi! Sto male, capite? Dentro sto bruciando, non respiro! E voi la TV… La rimpiange lui! Ve ne compro una nuova! — E con quali soldi? — Valerio si fermò fissando il muro. — Con quali, se hai dilapidato tutto? Ti sei fatta prestare di nuovo dagli amici? O hai rubato qualcosa dall’appartamento di quel tuo… come si chiama? — Non importa! — urlò Larisa. — Papà, non ho casa! Vuoi che viva sotto i ponti? — Vai in un dormitorio sociale. Va’ dove vuoi, — la voce del padre si fece inquietantemente calma. — Qui non entri. Cambio tutte le serrature, se solo mi accorgo che sei fuori dal portone. Veronica stava seduta sul letto, le ginocchia strette tra le braccia. Di solito in questi casi, quando la sorella maggiore faceva impazzire i genitori, la rabbia finiva per colpire anche lei. — E tu che fai? Sei in telefono di nuovo? Diventerai uguale a tua sorella, una nullità! — era la frase che sentiva da tre anni. Ma oggi si erano dimenticati di lei. Nessuno le urlava contro, nessuno la rimproverava. Il padre riattaccò, si tolse la giacca e i genitori si trasferirono in cucina. Veronica uscì timidamente nel corridoio. — Valerio, non puoi farlo, — piangeva la madre. — Si perderà. Lo sai come si riduce quando… in quello stato. Non si controlla. — E io devo controllarla io? — il padre mise il bollitore sul fornello con grande rumore. — Ho cinquantacinque anni, Tania. Voglio tornare a casa e sedermi in poltrona. Non voglio nascondere il portafoglio sotto il cuscino! Non voglio sentire lamentele dai vicini che la vedono in giro con certi elementi loschi e che li tratta male! — È nostra figlia, — sussurrò la madre. — Lo è stata fino a vent’anni. Adesso è solo qualcosa che ci succhia la vita. È ormai schiava dell’alcol, Tania. E non si guarisce se uno non vuole. E lei non vuole. Le piace così. Sveglia, trova, beve e si annienta! Il telefono squillò di nuovo. I genitori tacquero per un istante, poi la voce del padre rispose. — Dimmi. — Papà… — era di nuovo Larisa. — Sono in stazione. Qui gira la polizia, mi prenderanno se resto. Per favore… — Ascoltami bene, — interruppe il padre. — A casa non torni. Punto e basta. — Vuoi che mi butti sotto un treno? — minacciò Larisa. — Vuoi essere chiamato dall’obitorio? Veronica si fermò. Era il colpo basso che Larisa giocava sempre quando perdeva ogni speranza. Una volta funzionava. La madre iniziava a piangere, il padre aveva un dolore al petto e la sorella veniva ospitata, nutrita, aiutata. Ma oggi il padre non cedette. — Non fare la tragediaccia, — disse. — Ti vuoi troppo bene per farlo. Facciamo così. — Come? — speranza nella voce di Larisa. — Ti trovo una stanza. La più economica, in periferia. Pago il primo mese. Ti lascio qualcosa per mangiare. Basta. Poi fai da sola. Trovi lavoro, la smetti con questa vita — vivrai. Se no, tra un mese sei di nuovo in strada, e non mi interessa più niente. — Una stanza? Neanche un appartamento? Papà, non ce la faccio da sola. Ho paura. E poi… e se i vicini sono pericolosi? E poi senza nulla? Nemmeno lenzuola! Quel maiale ha lasciato tutto da sé! — La madre ti prepara la biancheria in una busta. La lasciamo dalla portinaia. Vieni a prenderla. A casa non salire, ti ho avvisata. — Siete degli animali! — Larisa passò di nuovo all’attacco. — Vostra figlia trattata come una bestia! Voi nella casa grande, io come un topo in una tana! La madre non resistette più e prese il telefono. — Larisa, taci! — urlò e Veronica sobbalzò. — Tuo padre ha ragione! Questa è la tua ultima possibilità. O stanza o strada. Ora scegli, perché domani neanche la stanza! Dall’altra parte silenzio. — Va bene, — brontolò infine Larisa. — Mandatemi l’indirizzo. E soldi… inviateli sulla carta subito. Ho fame. — Niente soldi, — tagliò Valerio. — Compro da mangiare e lo lascio nella busta. So troppo bene che fine fanno i soldi in mano tua. Chiuse la chiamata. Veronica decise che era il momento. Entrò cauta in cucina, fingendo di andare a bere. Si aspettava una tempesta di nervosismo su di lei. Il padre avrebbe notato la sua t-shirt stropicciata e la madre l’avrebbe rimproverata che in quella situazione grave a lei non importava nulla. Ma nessuno la guardò. — Veronica, — la chiamò la madre sottovoce. — Sì, mamma? — Nell’armadio, sull’ultimo ripiano, ci sono vecchie lenzuola. Prendile e mettile nella busta blu che sta nel ripostiglio. — Va bene, mamma. Veronica obbedì. Trovò la busta, la svuotò. Non riusciva a credere: come farà Larisa da sola? Non sa fare nemmeno la pasta. E la sua abitudine… Veronica sapeva che la sorella senza bottiglia non avrebbe resistito nemmeno due giorni. Andò nella camera dei genitori, prese una sedia e cominciò a tirare fuori le lenzuola. — Non dimenticare gli asciugamani! — gridò dalla cucina il padre. — Già messi, — rispose lei. Vide il padre che si metteva le scarpe ed usciva senza più una parola. Probabilmente andava a cercare quella “stanza”. Veronica si avvicinò alla madre in cucina. Lei era ancora seduta, immobile. — Mamma, vuoi una pastiglia? — chiese piano avvicinandosi. La madre la guardò. — Sai, Nica… — cominciò con una voce stanca, spenta. — Quando era piccola, pensavo: crescerà, sarà la mia compagna. Parleremo di tutto insieme. Adesso invece penso… spero solo non dimentichi l’indirizzo. Spero arrivi almeno in quella stanza… — Ci arriverà, — Veronica si sedette accanto a lei. — Se la cava sempre. — Stavolta non se la cava, — la madre scosse la testa. — Ha uno sguardo vuoto. Dentro non c’è più niente. Solo un involucro che ha bisogno di quell’orribile cosa per andare avanti. Io vedo quanto la temi… Veronica tacque. Pensava che i genitori non vedessero la sua paura, troppo impegnati a tentare di salvare la “perduta” Lariska. — Credevo che non vi importasse nulla di me, — confessò a mezza voce. La madre allungò la mano, le accarezzò i capelli. — Non è vero. Non abbiamo più forze. Sai com’è in aereo? Prima la maschera la devi mettere a te, poi al bambino. Noi dieci anni abbiamo tentato di aiutare lei. Dieci anni, Nica! Siamo andati da maghi, cliniche costosissime. E alla fine… alla fine stavamo per soffocare noi. Un campanello in corridoio. Veronica si scosse. — È lei? — chiese spaventata. — No, papà ha le chiavi. Sarà la spesa, l’ha ordinata lui. Veronica andò ad aprire. Il corriere diede due borse pesanti. Sistemò tutto in cucina: pasta, conserve, olio, tè, zucchero. Niente di superfluo. — Non mangerà nulla di tutto questo, — notò Veronica prendendo in mano una confezione di grano saraceno. — Vuole sempre i cibi già pronti. — Se vorrà vivere, imparerà a cucinare, — rispose dura la madre, e nella voce tornò per un attimo l’antica fermezza. — Basta viziarla. Così la portiamo nella tomba. Un’ora dopo tornò il padre, esausto come dopo tre turni in fabbrica. — Trovata, — disse solo. — Le chiavi sono con me. La padrona è una vecchietta severa, ex professoressa. Subito mi ha detto: “Se sento rumori, fuori subito”. Le ho detto la verità: “Buttala fuori subito”. — Valerio… — sospirò la madre. — Cosa, Valerio? Basta prendere in giro la gente. Meglio essere onesti. Prese la busta di lenzuola e i pacchi di viveri e si avviò alla porta. — Porto tutto dalla portinaia. Le telefono e le spiego. Veronica, chiudi bene la porta quando esco. E se chiama a casa, non rispondere. Uscì. E la madre si chiuse in cucina a piangere. Il cuore di Veronica si strinse. Ma come si può? Non vive, sopravvive tra una sbronza e l’altra, e toglie la vita anche ai suoi genitori… *** Le speranze dei genitori svanirono presto — dopo una settimana la padrona della stanza chiamò Valerio e disse di aver cacciato l’inquilina con la polizia. Larisa aveva portato tre uomini e festeggiato tutta la notte. Ancora una volta i genitori non se la sentirono di abbandonare la figlia — Larisa fu mandata in una comunità di recupero. Un centro chiuso, ben sorvegliato — lì promettevano di curare la “sbandata” in un anno. Chissà, forse il miracolo accadrà davvero…
Non fecero entrare la figlia in casa Perché non lavete lasciata entrare? chiese Veronica con voce tremante