Oggi voglio raccontarvi una storia che è accaduta nella mia famiglia e che ancora oggi mi tormenta. La protagonista è mia cugina Giulia, una ragazza gentile, laboriosa e generosa. Per dodici anni, ogni giorno dopo il lavoro, si è presa cura di sua nonna, Maria Vittoria. Puliva la casa, faceva la spesa, lavava i vetri, strofinava il fornello fino a farlo brillare, stendeva le lenzuola lavate a mano e ascoltava pazientemente i lamenti della nonna, massaggiandole le gambe quando si lamentava le gonfiavano. Tutto senza mai un rimprovero. Solo perché Maria Vittoria l’aveva cresciuta quando sua madre, troppo occupata col fratellino e con la carriera, non aveva tempo per lei.
Giulia ha sempre considerato la nonna la persona più importante della sua vita. Era lei che le aveva insegnato a fare le polpette alla romana, l’aveva portata a teatro quando la mamma era impegnata, l’aiutava coi compiti e trovava sempre le parole giuste quando a scuola la prendevano in giro. Giulia è cresciuta, ha trovato lavoro in banca, ha avuto un figlio, e la nonna è rimasta il suo punto fermo. Quando Maria Vittoria ha iniziato a perdere le forze—pressione alta, debolezza, la memoria che vacillava—è stata Giulia a occuparsi di tutto. Da sola. Senza che nessuno glielo chiedesse. Le bollette? Giulia. La farmacia? Giulia. L’insulina? Giulia. Eppure, Maria Vittoria aveva una figlia—la madre di Giulia—che viveva in un appartamento suo, con un lavoro stabile e una macchina, ma in dodici anni non si era mai presentata con una scodella di minestra calda o un barattolo di marmellata.
Poco tempo fa, Giulia ha perso il lavoro. Licenziamento in tronco, come spesso succede. I risparmi sono finitti in fretta, e ha capito che nessuna banca le avrebbe concesso un mutuo. Per la prima volta in vita sua, ha deciso di affrontare un discorso che le faceva tremare le mani. È andata da Maria Vittoria di sabato, come sempre: ha pulito, steso il bucato, preparato un infuso di menta. Poi si è seduta accanto a lei e, con tutta la calma che è riuscita a trovare, ha detto:
“Nonna, lo sai che non pretendo nulla. Ma forse… potresti lasciare a me la casa? Non adesso, solo… in futuro. Sai quanto ti voglio bene. Non voglio vivere in una stanza in affitto con mio figlio. Sono sempre stata come una figlia per te.”
La risposta della nonna è stata fredda come l’acciaio.
“No, Giulia. La casa andrà a mia figlia. A tua madre. Come si deve. Poi… faranno quello che vogliono.”
Giulia non ha avuto neanche il tempo di rispondere. Le si è stretto il cuore, e nella testa ha sentito un ronzio. Come se tutti quegli anni di aiuto e amore, tutti i pavimenti lavati e le minestre preparate, non fossero mai esistiti. Come se non avessero avuto alcun valore.
Se n’è andata in lacrime. Senza neanche salutare. Sono passati giorni, e ancora non trova la forza di tornare. Sta a casa, fissa il vuoto e mi chiede:
“Non ho mai chiesto niente in tutti questi anni. Non me lo sono meritato? È così sbagliato volere una vita sicura per mio figlio? Perché la nonna, che mi ha sempre amata, ha visto solo avidità in quello che ho detto?”
E io… non so cosa risponderle. Conosco Maria Vittoria da una vita. È una donna dura, con i suoi principi. Per lei, l’ordine delle cose è sacro. Chiunque si sia preso cura di lei, la casa deve passare alla figlia, “come vuole la tradizione”. Tutto il resto, dice lei, è “dovere umano”, non un contratto.
Ma l’amore si misura davvero col sangue? Non è forse più degno di gratitudine chi è stato presente, senza chiedere niente in cambio?
Adesso Giulia non sa come comportarsi con la nonna. Non vuole offenderla, ma non può nemmeno far finta di nulla. Il suo cuore è spezzato. Si sente tradita.
Non sto giustificando nessuno. Ma forse gli anziani hanno paura. Paura di ammettere che, ormai, la nipote è più vicina a loro della propria figlia. Paura che una firma possa scatenare un conflitto in famiglia. Paura del cambiamento. Forse Maria Vittoria si sta solo difendendo.
E Giulia? Giulia continua a cucinare la minestra. Ma ora, solo per suo figlio. E gli insegna a essere riconoscente. Perché l’ingratitudine fa più male di una coltellata.