Mio figlio di 35 anni vive ancora con me e dipende da me, gli amici mi consigliano di mandarlo via, ma non so come fare.

Mi chiamo Tiziana Bianchi e vivo a Cremona, dove la Lombardia nasconde le sue tranquille strade lungo il fiume Po. Stamattina mi sono svegliata prima della sveglia per pulire casa, mentre mio figlio Marco dormiva ancora. Ha 35 anni e vive con me sotto lo stesso tetto da una vita eterna. In cucina si trovano pile di piatti sporchi, nel soggiorno i suoi vecchi oggetti sparsi come un promemoria del fatto che è bloccato qui per sempre. È come se qualcuno avesse messo la vita in pausa dimenticandosi di spegnere il televisore. Vorrei dirgli: “È ora di vivere la tua vita”, ma ogni volta le parole si bloccano in gola e il cuore si stringe dalla paura.

Quando Marco era piccolo, l’ho cresciuto da sola. Mio marito ci ha lasciati, costringendomi a interpretare i ruoli di madre, padre e sostentatrice. Mi preoccupavo per ogni suo graffio al parco giochi, per ogni insufficienza a scuola. Ho fatto di tutto per farlo sentire al sicuro nella nostra casa. Gli anni sono passati, e quella protezione è diventata una gabbia. È cresciuto nel corpo, ma è rimasto un bambino nell’anima, protetto sotto la mia ala. Non mi sono accorta di averlo trasformato in un eterno ragazzino che si aspetta che la mamma risolva ogni problema.

Un giorno un’amica mi ha chiesto aiuto per trasportare dei vecchi mobili. Ho chiesto a Marco: “Figlio, dacci una mano!” Ma lui ha solo alzato le spalle: “Mamma, ho da fare, magari un’altra volta”, e si è immerso nei suoi giochi infiniti al computer. Questo momento è stato lo specchio della nostra vita: io sono pronta a tutto per lui, e lui vive nell’illusione che la mamma lo salverà sempre. Gli amici mi ripetono all’unisono: “Tiziana, questa è casa tua, le tue regole! Mandarlo via è l’unica soluzione, altrimenti non inizierà mai a lavorare e pensare con la sua testa”. Le loro parole feriscono con la verità, ma non appena immagino di chiudere la porta alle sue spalle, sento un gelo dentro. È pur sempre il bambino che correva da me con le ginocchia sbucciate, piangeva quando lo prendevano in giro a scuola, mi aspettava dal lavoro per cenare insieme.

Mi rendo conto di come sto diventando una vecchia brontolona. Ogni mattina borbotto: “Di nuovo non ha buttato via la spazzatura, di nuovo ha lasciato le cose in giro per casa”. L’istinto materno lotta contro la stanchezza di tirare avanti tutto da sola. Marco non lavora stabilmente, fa dei lavoretti, ma perde rapidamente interesse. Quando guadagna qualcosa, i soldi finiscono in divertimenti. Mi vergogno di contare i centesimi, mi vergogno di non poterlo aiutare con un acquisto importante, ma mi fa ancora più male che lui non provi nemmeno a semplificarmi la vita.

Qualche giorno fa ho trovato il coraggio di affrontarlo. “Marco, dobbiamo cambiare qualcosa”, gli ho detto con la voce tremante. “Il tempo passa e tu resti fermo. Io non sono eterna; cosa accadrà quando non ci sarò più?” Lui si è accigliato, si è alzato in silenzio, ha sbattuto la porta e si è chiuso nella sua stanza. Non c’è stato un dialogo, e nel profondo ho sentito come se tradissi il nostro amore costruito dai suoi primi passi. Ma il pensiero non mi dà pace: e se gli amici avessero ragione? È forse ora di lasciarlo andare, anche se questo spezzerà il mio cuore? I figli delle altre donne alla sua età hanno una famiglia, crescono i loro bambini, mentre io continuo a preparargli la ribollita, a stirargli le camicie e ad ascoltare le sue promesse vuote che “domani” tutto cambierà. Questo “domani” si è allungato per anni e senza una mia azione nulla cambierà.

A volte penso che non si tratti di “cacciarlo”, ma di trovare le parole che risveglieranno in lui il desiderio di vivere autonomamente. Ma come trovarle senza ferirlo? È una persona sensibile, dentro di lui si nasconde una montagna di paure e rancori, e forse è stata la mia eccessiva protezione a legarlo a questa casa. Ma anch’io sono umana: sono stanca, voglio pace, voglio vivere senza il peso eterno della responsabilità per un figlio adulto. Oggi, mentre ero al lavandino, ricordavo come il piccolo Marco mi aiutava a sistemare la spesa sugli scaffali. Aveva cinque anni, si impegnava al massimo, anche se con goffaggine. Allora eravamo una squadra, una famiglia. Ora è un pesante macigno sulle mie spalle e non so come liberarmene.

Il tempo scorre inesorabile. Credo che un giorno Marco troverà la forza di affrontare il mondo senza il mio cuscino di sicurezza, dove dovrà imparare a camminare da solo. Ma per questo devo prendere una decisione che temo più di ogni altra cosa al mondo. Come raccogliere questo coraggio? Non lo so. Ma capisco che non è crudeltà, è il mio dovere: dargli la possibilità di crescere, anche se comporterà lacrime e rimbrotti reciproci. Quando infine gli parlerò, non posso prevedere cosa accadrà. Forse se ne andrà sbattendo la porta e mi maledirà per il “tradimento”. Forse troverà la libertà e un giorno mi dirà “grazie”. Ma so con certezza che non posso più tirare questo carro all’infinito. Questo pensiero – un intreccio di paura e sollievo – batte nel petto come un martello. L’amore di una madre non è solo cura, ma anche la capacità di dire al momento giusto: “Segui la tua strada”. E devo farlo, per lui e per me.

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