«Ha lasciato un bambino alla nostra porta… Ho subito capito che era destino»

«Ha lasciato una bambina davanti alla nostra porta… E io ho capito subito: era destino.»

Nella vita ci sono attimi in cui il mondo sembra fermarsi. Un respiro, e tutto cambia per sempre. La mia storia è una di queste. Non potrò mai dimenticare quella mattina, quando sulla soglia di casa nostra a Firenze è cominciato un nuovo capitolo della mia vita. Un capitolo intitolato «mamma».

Con mio marito siamo insieme da otto anni. Insieme abbiamo vissuto di tutto: speranza, delusione, lacrime, tentativi… Sognavamo un figlio dal giorno del nostro matrimonio. Ma né una gravidanza naturale, né le costose procedure di fecondazione assistita hanno dato risultati. Una dopo l’altra, ho affrontato il dolore, le iniezioni ormonali, i test negativi e la disperazione silenziosa. Il mio corpo rifiutava la vita nuova, e il mio cuore non riusciva ad accettarlo.

Dopo l’ennesimo fallimento, abbiamo deciso di adottare. Abbiamo raccolto i documenti, superato le valutazioni, ottenuto l’approvazione. Restava solo l’attesa. Aspettare la chiamata che dicesse: «Venite, c’è un bambino per voi». Ma nemmeno questo è stato semplice. Volevo un neonato, non un bambino di tre anni o un ragazzino, ma proprio un bebè, per accompagnarlo dal primo vagito ai primi passi. Ma per i neonati c’è una lista d’attesa lunghissima. Ho chiesto aiuto a tutti i contatti possibili, ma invano. I giorni passavano, il telefono taceva, e io con lui. Ogni mattina mi svegliavo con la speranza che, forse, sarebbe arrivato quel giorno…

Gli amici, i vicini, persino i colleghi sapevano che io e mio marito volevamo diventare genitori. Non nascondevamo i nostri tentativi né il dolore. Tutti sapevano quanto lo desiderassimo.

E poi… quella mattina. Un squillo alla porta, di prima mattina. A malapena sveglia, mi sono infilata la vestaglia, pensando a un vicino o a un corriere. Ho aperto… e mi sono bloccata. Sulla stuoia, c’era una grossa borsa da palestra. Dentro, un minuscolo neonato, ancora avvolto in una coperta logora. Vivo, caldo, e come se fosse già mio.

In preda al panico, l’ho preso in braccio, con le mani che tremavano e il cuore che batteva all’impazzata. Era una femminuccia. Piccolissima, con il moncone del cordone ombelicale ancora fresco. Era appena nata. Mio marito ha chiamato la polizia. Nel frattempo, l’ho cambiata, l’ho riscaldata, l’ho stretta a me. Il mio cuore era in subbuglio, tra paura e felicità.

Quando sono arrivati gli agenti, hanno redatto il verbale e, naturalmente, si sono portati via la piccola. Io ho pianto. Ho supplicato di tenerla. Ho spiegato che io e mio marito desideravamo un figlio da anni, che eravamo pronti a prenderci la responsabilità all’istante. Ma la legge è legge.

Il giorno dopo ho presentato la richiesta di adozione. Uno degli agenti mi ha detto:
«Aspetti un po’. Potrebbe farsi viva la madre. Succede.»

E in quel «potrebbe» ho aggrappato un pensiero. Chi poteva saperlo? Chi sapeva che aspettavamo un bambino? Chi avrebbe potuto fare una cosa del genere?

Poi mi è venuto in mente… Nel palazzo accanto viveva una ragazza silenziosa e riservata, Valentina. Veniva da un paesino, studiava all’università. Non la vedevo da tempo. E all’improvviso, l’illuminazione. Sono andata da lei. Quando mi ha aperto e mi ha visto, è scoppiata in lacrime, come se avesse aspettato quel momento.
«È mia figlia» ha detto, senza aspettare la domanda. «Sapevo che volevate una bambina. Io non ce la faccio, non ho nessuno. Non potevo tornare al paese con questa vergogna. Ma da voi sarebbe stata felice…»

Mi sono seduta accanto a lei, l’ho abbracciata. Le ho detto che nessuno la giudicava. Che l’avrei aiutata. Che poteva firmare un atto di rinuncia, come da legge. E che sua figlia sarebbe stata al sicuro. E amata. Tanto amata.

Oggi abbiamo la nostra Ginevra. Il nostro piccolo miracolo. Una bambina dallo sguardo dolce, con un caratterino, con una risata contagiosa che riempie la casa. Valentina se ne è andata. Ha detto che non riesce a starle vicino, che è troppo doloroso. Ma so che è viva, che studia, lavora, e nel suo cuore non è indifferente.

E io ringrazio il destino ogni giorno per quella mattina. Per quel bussare alla porta. Per Ginevra. Perché a volte i miracoli non arrivano da un ufficio burocratico, ma… si presentano sulla soglia di casa. E capisci: sei una mamma. E niente sarà più come prima. Ci sarà solo amore.

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«Ha lasciato un bambino alla nostra porta… Ho subito capito che era destino»