«Lei ha rinunciato al figlio per un salone di bellezza, io l’ho accolto come figlio mio»

Il partito di Giulia arrivò all’improvviso – prematuro, all’ottavo mese. I medici decisero in un battibaleno, e poche ore dopo teneva tra le braccia il corpicino fragile della sua minuscola bambina. La piccola fu subito messa in incubatrice – troppo debole per respirare da sola. Gli occhi di Giulia erano pieni di lacrime, e nel cuore un’ansia impossibile da placare. Continuava a ripetersi, sussurrando tra i singhiozzi: «La mia piccola ce la farà… Torneremo a casa insieme…»

I giorni in ospedale sembravano non finire mai. Giulia quasi non dormiva, avvicinandosi ogni ora al vetro oltre cui giaceva la sua bambina, guardandola, pregando, cercando di crederci. Una volta, uscendo dalla stanza, sentì per caso due infermiere che parlavano. Nelle loro voci non c’era compassione, solo stanchezza e amarezza.

«Quella della settima stanza…» disse una. «Ha rifiutato di allattare. Dice che ha paura di rovinarsi la figura.»

«Bella, sì. Ma cosa abbia in testa, non si capisce.» sospirò l’altra.

Giulia si irrigidì. Parlavano di una donna che aveva partorito un maschietto qualche giorno prima. Non solo si era rifiutata di allattarlo, ma aveva firmato i documenti per rinunciare alla maternità. «Non rientra nei miei piani essere madre», diceva. «Voglio vivere per me stessa.»

L’uomo che veniva all’ospedale era quello che avrebbe spezzato il cuore di Giulia. Andava a trovare il figlio, restava davanti al vetro, sfiorava quella manina minuscola con i guanti. Quando vide Giulia cullare dolcemente il bambino, allattarlo, sorridergli, nei suoi occhi si accese qualcosa di più della gratitudine: speranza.

Nel frattempo, la madre del bambino era occupata con se stessa. Nuova manicure, trattamento ai capelli, appuntamento dall’estetista e prova dell’abito per la dimissione. Nella sua testa non c’era spazio per i pianti affamati del figlio né per le notti insonni. Era convinta di fare la cosa giusta. «Sono ancora troppo giovane per stare dietro a un bambino», diceva alle amiche al telefono. «Ho tutta la vita davanti.»

Giulia andava dal bambino ogni giorno. Non dimenticava la sua piccola, pregando perché avesse la forza di farcela. Ma purtroppo… Dopo qualche giorno, il medico le diede la terribile notizia: la bambina era morta. Il cuore di Giulia si strinse. Il mondo le sembrò più scuro. Dentro di lei, solo vuoto.

Seduta sul letto, non riusciva né a parlare né a piangere. Si stringeva le spalle, come se volesse ricomporre il suo cuore a pezzi. E all’improvviso, bussarono alla porta. Era lui – quell’uomo. Tra le mani, fiori e palloncini. Si avvicinò, si inginocchiò e le tese le braccia:

«Andiamo a casa… insieme.»

Giulia era confusa. Non capiva. Lui allora le posò delicatamente tra le braccia il neonato. Quel bambino che lei aveva allattato, a cui si era affezionata come fosse suo. L’uomo aveva preso una decisione – avrebbe adottato il figlio da solo. Ma non da solo. Con Giulia. Perché solo lei era diventata, per quel bambino, una vera madre.

Quel giorno lasciarono l’ospedale insieme. Giulia non era sola. Accanto a lei c’era un uomo, e un bambino. Nel cuore, il dolore della perdita e una luce di speranza.

E l’altra? Beatrice, l’ex moglie dell’uomo, era alla finestra nel suo abito elegante. Quando vide che non stava aspettando lei, ma Giulia, che i fiori e i palloncini andavano a un’altra donna, impallidì. All’inizio non capì. Poi corse lungo il corridoio, gridando:

«Ma che succede?! Dov’è mio marito?! Dov’è mio figlio?!»

Alla reception la accolse la stessa infermiera che per giorni aveva visto la sua indifferenza e freddezza.

«Si calmi, Beatrice» disse stanca. «Tutto a posto. Ora può dedicarsi alla sua bellezza in pace. Suo figlio ha trovato una vera madre.»

Giulia e il bambino sparirono dall’ospedale. Nessuno li vide più. Si trasferirono in un’altra città. Ricominciarono da zero. Con amore e fiducia.

E Beatrice restò lì, sulla soglia, con i suoi documenti di dimissione, il vestito, i capelli perfetti… e nessuno accanto.

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