**Addio, cuore spezzato: la tragedia di una famiglia**
Vivevamo come in un sogno, o almeno così mi sembrava. Una casa accogliente nella tranquilla periferia di Verona, una famiglia amorevole, un lavoro stabile. Né io né i parenti di mia moglie, Lara, ci siamo mai intromessi nella vita dell’altro, e non ce n’era motivo. Nostra figlia Sofia, il nostro piccolo angelo, riempiva ogni giorno di gioia. Tutto era perfetto… fino a quella maledetta sera.
Stavo tornando a casa dal lavoro, attraversando una piazza imbiancata di neve che separava il nostro quartiere dal caotico centro cittadino. Il vento ululava, i lampioni illuminavano debolmente il selciato, quando all’improvviso dalle tenebre si levò un urlo straziante: «Lasciami andare, ti prego!» Il suono era così agghiacciante che mi fermai di colpo, scrutando nell’oscurità. Il grido si ripeté, più vicino, e io, senza pensarci due volte, corsi verso quella voce.
Tra i fiocchi di neve, distinsi due sagome: una ragazza esile che si dibatteva disperatamente tra le braccia di un gigante, che la trascinava verso un cantiere abbandonato. Tra le braccia stringeva un barboncino tremante. Mi slanciai verso di loro, afferrando l’aggressore per la giacca. Lui si voltò con rabbia selvaggia e mi sferrò un pugno. Il colpo mi bruciò la guancia, ma schivai il secondo e, raccogliendo tutte le forze, lo colpii al fianco. Barcollò, inciampò sul marciapiede e cadde, sbattendo la testa contro un cumulo di neve ghiacciata. La ragazza, senza voltarsi, sparì nella notte, portando con sé il suo cagnolino.
Respiravo affannosamente, cercando di riprendermi. L’aggressore giaceva immobile. Sotto la luce del lampione notai una macchia scura che si allargava nella neve attorno alla sua testa. Un brivido mi percorse la schiena. Chiamai l’ambulanza, ma sapevo già che non c’era speranza. I soccorsi confermarono il peggio: era morto. La polizia arrivò poco dopo, e invece di casa, finii in commissariato, travolgendo domande.
Con Lara mi vidi soltanto in tribunale. L’investigatore non permise incontri, ignorando le mie richieste. Raccontai tutto com’era successo: il grido, la lotta, il colpo accidentale. La ragazza che avevo salvato venne persino a testimoniare, ma l’inchiesta insistette nel vedermi come un criminale. Legittima difesa? No, eccesso colposo. Il giudice lesse la sentenza: quattro anni di carcere. Lara, seduta in aula, si coprì il volto con le mani, le spalle scosse dai singhiozzi. Quattro anni di separazione sembravano un’eternità. L’avvocato riuscì a mitigare la pena, il pubblico ministero non fece ricorso, e io, col cuore in pezzi, accettai il mio destino. In cella, sussurravano di pene ben più lunghe, per cui quattro anni sembravano quasi una grazia.
Il carcere mi accolse con umidità e grigiore. Dopo la quarantena, aspettai le visite, ma Lara non si fece mai vedere. Nelle lettere scriveva degli impegni, di Sofia, ma ogni volta c’era una scusa per non venire. Morivo dalla voglia di abbracciare mia figlia, ma senza la madre, un bambino non poteva entrare in prigione. Le lettere di Lara divennero sempre più rare, e le mie, spedite ogni due giorni, sembravano sparire nel nulla.
Poi arrivò il giorno che mi spezzò il cuore. Trovai tra le mani una busta spessa. Sorrisi riconoscendo la sua grafia ordinata, ma riga dopo riga, il sorriso svanì. Lara scriveva del divorzio. «Sono stanca, Luca. Non ce la faccio da sola. C’è qualcuno su cui posso contare. Sofia cresce, e fra quattro anni? Cosa sarà di noi? Perdonami». Le parole mi bruciavano come ferro rovente. Stracciai la lettera, sentendo il mondo crollarmi addosso. Il mio compagno di cella, vedendo la mia espressione, mi diede una pacca sulla spalla: «Tieniti duro, fratello. Uscito, sistemerai tutto. Andiamo, facciamoci un caffè strong».
Tra una tazza di caffè amaro e gli altri detenuti, trattenevo a stento la rabbia. Il capocella, strippando gli occhi, borbottò: «Non frignare, lavora. Fai il doppio, punta alla libertà condizionale. Il tempo sistemerà tutto». Le sue parole mi rimasero in testa. Mi misi a lavorare come un ossesso: completavo il doppio delle quote, tacevo, sopportavo. Il direttore, vedendo i miei sforzi, presentò la richiesta per la libertà anticipata. Ora aspetto la decisione del tribunale, sperando nella libertà.
E poi? Non lo so. Ma una cosa è certa: farò di tutto per riavere Sofia. Il suo nuovo «papà» e Lara, che ha tradito il nostro amore così facilmente, non me la porteranno via. La vita può colpirmi, ma resisterò. Per lei.