«Mio figlio ha la gastrite e sua moglie lo nutre con fast food. Non riesco a guardare senza reagire…»

Mi chiamo Ludovica Rossi. Mio figlio Matteo ha appena compiuto 27 anni. Sei mesi fa ha sposato una ragazza di nome Ginevra. È intelligente, carina, di buona famiglia. Sta finendo il sesto anno di medicina, diventerà dottoressa. E in teoria tutto dovrebbe andare bene, ma non riesco a calmarmi: il cuore non mi dà tregua. Perché vedo che non si prende cura di mio figlio come dovrebbe.

Matteo soffre di gastrite cronica fin da bambino. È ereditaria, come il padre. Non è un semplice “mal di stomaco da cattiva alimentazione” come molti pensano oggi. È una malattia che, quando si aggrava, può trasformare la vita in un inferno. In primavera e autunno Matteo sta particolarmente male: bruciori, dolori, vomito, insonnia. So cosa prova, perché l’ho curato io per anni. Quando viveva con me, seguivo rigidamente la sua dieta: niente fritti, niente fast food, pasti puntuali, minestre, carni lesse, zuppe, gelatine di frutta. Non lo nutrivo soltanto – lo proteggevo.

Prima del matrimonio, avvertii Ginevra:
“Matteo ha lo stomaco delicato. Bisogna fare attenzione, soprattutto nei cambi di stagione. Per favore, cucinali pasti adatti.”
Sorrise e promise che avrebbe tenuto tutto sotto controllo. Mi fidai.

Ma un mese dopo, andai a trovarli e rimasi sconvolta. In cucina, piatti sporchi, nel frigo solo ketchup, birra e un filoncino secco. Nel cestino, scatole di pizza e avanzi di ali di pollo del fast food. E sui fornelli – nulla. Chiesi:

“Dov’è Matteo?”

“Al lavoro, tornerà presto,” rispose Ginevra tranquilla.

“Ha mangiato oggi almeno?”

“Sì, credo qualcosa… stamattina…”

Mi si gelò il sangue. Sapevo come sarebbe finita. E avevo ragione. Tre mesi dopo, ospedale. Attacco acuto. Flebo, dieta, dolori. Stetti con lui quasi tutto il tempo. Ginevra veniva – un’ora, due al massimo – poi diceva di doversi preparare per un esame. Ebbi paura.

Dopo la dimissione, portai loro un coniglio fresco, di qualità, comprato al mercato. Le chiesi di preparare un brodo leggero. Annuì. Passò più di una settimana. Aprii il freezer – il coniglio era ancora lì, intatto. Nemmeno scongelato. Figurarsi il brodo.

Offrii aiuto:
“Ginevra, fammi cucinare io. Capisco che sei impegnata, hai studio, esami…”

“No, grazie!” tagliò corto. “Ce la faccio da sola.”

Ma vedo che non ce la fa. E mi strazia vedere mio figlio, che ho protetto per anni, tornare lentamente alla condizione in cui la malattia riprende il sopravvento. Lui tace. Non vuole ferirla. Evita conflitti. Ma perde peso, è irritabile, non dorme.

Io non posso tacere. Non posso restare a guardare mentre la sua salute va in rovina. Non voglio litigare con Ginevra. Né rovinare il loro matrimonio. Ma non permetterò che mio figlio peggiori giorno dopo giorno.

Sto seriamente pensando di parlare con sua madre. Forse potrà farle capire. Forse troverà le parole per spiegare che un marito ha bisogno di cure non solo a parole, ma nei fatti. Che essere moglie non è solo dividere letto e cucina. Significa sostenere, curare, salvare quando l’altro soffre. E se poi sei una dottoressa – o quasi – a maggior ragione.

Non sono una nemica. Sono solo una madre. Voglio che mio figlio stia bene. E se per questo dovrò intervenire, lo farò. Cucinerò io, porterò pasti ogni giorno. Ma non permetterò di vederlo impallidire, indebolirsi, soffrire. Non starò zitta mentre lo rovinano con l’indifferenza. Perché amo mio figlio. E lotterò per lui, anche se a qualcuno sembrerà sbagliato.

A volte, l’amore vero non è starsene in silenzio, ma avere il coraggio di agire, anche quando è difficile.

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«Mio figlio ha la gastrite e sua moglie lo nutre con fast food. Non riesco a guardare senza reagire…»