**Diario Personale**
Sono una settimana che vivo da mia madre — non ce la facevo più a sopportare il caos in casa.
Sono cresciuto in una famiglia dove l’ordine non era solo un’abitudine, ma uno stile di vita. Mia madre, nonostante il lavoro e due figli, riusciva sempre a mantenere la casa perfettamente pulita. Ogni cosa aveva il suo posto, i pavimenti luccicavano, il frigorifero profumava di fresco e nell’aria si respirava cura. Ho imparato presto che il comfort comincia dalla pulizia. Quando mi sono sposato, non avrei mai immaginato che potesse essere diverso.
Eppure, dopo tre anni di matrimonio, vivo in una trappola di disordine perpetuo. Ogni sera, al rientro dal lavoro, inciampo nel caos. Il lavello è pieno di piatti sporchi, le briciole invadono la cucina, il cestino dell’immondizia trabocca e nel frigorifero resti di cibo dimenticati ammuffiscono. Il pavimento è appiccicoso, il bagno una montagna di panni da lavare e le scarpe nell’ingresso rimangono lì finché non le sistemo io.
Mia figlia Caterina mi corre incontro sporca, con i collant strappati, i capelli arruffati e vestiti che hanno visto giorni migliori. Attraversare il corridoio è un’impresa: passeggino, buste della spesa, giocattoli sparsi, scarpe… Gli armadi sono spalancati, abiti che traboccano. Eppure la mattina avevo riordinato tutto io, con precisione. È incomprensibile: abitiamo in un trilocale o in un ripostiglio senza finestre?
Ho provato a parlarne. Con calma, senza rimproveri. «Lucia, per favore, mettiamo un po’ d’ordine, non ce la faccio più a vivere così». Ascoltava, annuiva, prometteva, ma nulla cambiava. Prima della bambina, dividevamo tutto: pulizie e cucina, a metà. Una volta a settimana lavavamo i pavimenti insieme, spolveravamo, a turno i piatti. C’era complicità.
Ora, però, mentre io lavoro fino a tardi e lei è a casa con Caterina, chiedo solo di non dover scavare tra pile di vestiti, cercare una tazza pulita tra stoviglie sporche o raccogliere calzini sparsi. Non mi rifiuto di aiutare: la domenica lavo i pavimenti, spolvero, la mattina porto fuori la spazzatura. Ma sono stanco. Stanco di tornare a casa e dover pulire anziché riposare. Stanco di cercare la macchinetta del caffè tra il disordine. Stanco di litigare per nulla.
Alla fine ho posto un ultimatum: in tre giorni doveva esserci un minimo di ordine o me ne sarei andato. Lucia ha riso, credendo scherzassi. Ma dopo settantadue ore identiche, ho preso le mie cose e sono venuto da mamma. Sono qui da una settimana. Dormo nella mia vecchia camera, mangio minestra calda, apro il frigorifero e non temo di trovarci qualcosa di vivo.
Non voglio divorziare. Amo Lucia. Amo Caterina. Ma non capisco come si possa vivere così. Non chiedo l’impossibile. Chiedo rispetto. Per la casa. Per me. Per noi. Se non ci sarà… dovrò scegliere tra la pace e l’amore. Perché vivere nel caos non è vivere. È sopravvivere.