Due settimane a curare mio nipote, ma invece di un grazie, ho ricevuto solo critiche dalla nuora.

Tutto cominciò una sera tarda. Erano già passate le dieci quando squillò il telefono. Sullo schermo, il nome di mio figlio. La sua voce tremava: “Mamma, hanno portato Carla all’ospedale. Ha dolori fortissimi, i dottori non vogliono rischiare. Io vado con lei, ma non ho nessuno a cui lasciare Luca. Solo tu puoi aiutarci…” Mezz’ora dopo, mio figlio era sulla soglia di casa con il marsupio, le borse e il mio nipotino di un anno e mezzo. Negli occhi, angoscia e supplica. Naturalmente, non potevo dire di no, anche se con Carla, sua moglie, i rapporti erano, per usare un eufemismo, piuttosto freddi.

Da quando era nato Luca, ero stata come messa da parte. Quante volte avevo offerto aiuto: per cucinare, per il bambino, per permettere loro di riposarsi. La risposta era sempre la stessa: “Grazie, ce la facciamo da soli”. Non mi sono imposta, ma il cuore mi doleva. Sono una nonna, voglio essere presente. L’ultima volta che avevo visto mio nipote era stata in primavera. Poi Carla si era completamente chiusa. Durante la pandemia, era diventata paranoica: tutto veniva disinfettato con la candeggina, le porte si aprivano con il gomito, e gli ospiti? Neanche a parlarne.

Ma ora, con l’emergenza, mi avevano fatto entrare. Mio figlio mi lasciò un arsenale: vasetti, creme, istruzioni, vestiti di ricambio e persino una palla per esercizi. “Carla lo culla solo sulla palla, altrimenti non si addormenta”, mi spiegò in fretta. Annuii, anche se dentro di me pensai: “Ma no, è tutto inutile. Un bambino deve abituarsi a dormire da solo”. Dopo averlo accompagnato all’ospedale, chiamai il capoufficio e presi due settimane di ferie. Non era la prima volta che affrontavo situazioni difficili.

La prima notte fu dura, ovviamente. Il piccolo urlava così forte che i vicini bussarono alla porta per chiedere se andava tutto bene. Mi scusai e spiegai la situazione. Scrollarono le spalle e se ne andarono. Ma già alla terza notte Luca si addormentava più in fretta. Gli accarezzavo la schiena con movimenti lenti e regolari. Si addormentava sotto la mia mano, come se fosse una ninna nanna.

Dopo cinque giorni, Carla mi chiamò. Chiese cosa gli davo da mangiare, come dormiva, come andava di corpo, di che colore erano le pappe. Risposi con calma a tutte le domande. Le dissi che andava tutto bene, che mangiava tranquillamente le mie pappe fatte in casa—verdure e frutta fresca. Non mi fidavo di quelle del supermercato. Dall’altra parte, silenzio. Non credeva che il bambino potesse addormentarsi senza la palla, senza i suoi rituali.

Passarono due settimane. Vivevo per quel bambino, gli dedicavo tutta la mia anima. Le mie mani avevano ritrovato il gesto di cullare un neonato, il mio cuore batteva al ritmo del suo respiro. Ero stanca, certo. Ma felice. Finalmente mi sentivo una nonna.

Quando Carla fu dimessa, le consegnai Luca con cura, sistemai le sue cose. Nessun “grazie”, nessun sorriso. Solo uno sguardo scontento e una frase:
“Hai sbagliato tutto.”
“Scusami?” chiesi, senza capire.
“Hai rotto la routine. Adesso piange la notte, e le tue pappe gli hanno fatto venire l’allergia. Non ci hai ascoltati. Avevo detto di seguire le istruzioni. Perché non hai rispettato il nostro metodo?”

Rimasi senza parole. Per due settimane nessun problema, e ora solo accuse. Invece di un grazie, una lite. Mi fece male, mi ferì profondamente. Non mi ero offerta, avevo solo aiutato nel momento del bisogno. E tutto quello che sentivo era che “avevo rovinato tutto”.

Ora non posso più vedere mio nipote. Carla ha detto che non si fida di me. Luca lo vedo solo nelle foto che mio figlio posta sui social. Lui tace, non interferisce. E io non insisto. Ma dentro, mi sento a pezzi.

Non credo di aver sbagliato. Ho cresciuto mio figlio senza palline speciali, ed è diventato un uomo meraviglioso. Qui invece tutto è calcolato: i pannolini a orari fissi, il cibo a grammi, tutto fatto a regola. Dov’è l’amore in tutto questo?

Non so chi ha ragione e chi ha torto. So solo una cosa: sono una nonna, e amo mio nipote. E se un giorno mi chiameranno di nuovo chiedendo aiuto, aprirò la porta senza esitare. Ma il dolore di questa ingratitudine, di questo gelo, resterà dentro di me per sempre.

La vita insegna che a volte l’amore più puro viene ripagato con l’incomprensione. Ma l’amore vero non conosce condizioni, e nemmeno i rimpianti.

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Due settimane a curare mio nipote, ma invece di un grazie, ho ricevuto solo critiche dalla nuora.