Ecco la storia adattata alla cultura italiana:
Vivo con Antonio nella sua casa—beh, non proprio solo sua. Oltre a noi, ci sono suo fratello minore Paolo e sua moglie Beatrice. Abbiamo una cucina in comune, facciamo la spesa insieme, cuciniamo a turno e dividiamo le bollette a metà. Sembra una comunità perfetta, vero? Peccato che Beatrice, la nostra cara cognata, abbia deciso che le faccende domestiche non la riguardano. Non lava neanche un cucchiaino, non sbuccia una patata, e io sono a un passo dal piazzarle una scopa in mano e dirle: “Benvenuta nel mondo reale!” Per ora mi trattengo, ma la pazienza mi sta sfuggendo più velocemente del burro in padella.
La casa è stata lasciata ad Antonio e Paolo dai genitori, e quando ci siamo sposati abbiamo deciso di vivere tutti insieme—più economico, e poi la casa è grande, c’è spazio. Io non ero contraria: Paolo è un ragazzo tranquillo, lavora in un’officina e quasi non si vede. Ma Beatrice… eh, con lei è complicato. Quando si sono sposati, pensavo fosse solo timidezza, che non volesse impicciarsi nelle faccende comuni. Dopo sei mesi, però, ho capito: la timidezza non c’entra. Beatrice è una campionessa nel evitare qualsiasi lavoro. Può starsene ore nella sua stanza a scrollare il telefono o a farsi le unghie mentre io in cucina preparo la cena per tutti e quattro.
Il nostro sistema è semplice: la spesa la facciamo insieme, cuciniamo a turno. Io e Antonio ci prendiamo metà della settimana, Paolo ogni tanto griglia della carne o fa i suoi panini speciali, e Beatrice… Beh, il suo turno è quando ordina una pizza o mette in tavola uno yogurt con scritto “cena pronta”. E non è che non le piaccia cucinare—non lava nemmeno i piatti che usa! Una volta ho contato: in una settimana lavo una montagna di stoviglie, e metà sono le sue tazze di caffè con il latte mezzo bevuto. E quando le chiedo di sistemare, mi guarda come se fossi un’aliena e dice: “Oh, Sofia, domani lo faccio.” Domani? Quel domani non arriva mai!
Ho provato a parlarne con Antonio. “Tonio,” gli dico, “tua cognata ci tratta come delle domestiche. Forse Paolo potrebbe dirle qualcosa?” Lui ride e dice: “Sofia, non esagerare, Bea non è abituata alle faccende. È cresciuta in città, sua madre faceva tutto.” In città? E io allora, sono scappata da una fattoria? Anch’io sono cresciuta in città, eppure so pelare le patate e lavare i pavimenti. Quando ho accennato a Paolo, ha scrollato le spalle: “Bea è fatta così. Se non vuole cucinare, non forzarla.” Non forzarla? E allora chi sfamerà tutta questa gente se anche io inizierò a “non volere”?
L’altro giorno è successa una cosa che mi ha fatto saltare i nervi. Stavo preparando un risotto alla milanese, buono, con lo zafferano, come piace ad Antonio. Due ore ai fornelli, apparecchio la tavola, chiamo tutti. Beatrice scende, si fa un piatto pieno e dice: “Sofia, ma perché il risotto è così asciutto? Ci voleva più burro.” Per poco non mi cade la forchetta. Asciutto? Io passo due ore a cucinare e mi sento dire che il mio risotto “non è buono”? E lei non ha manco detto grazie, ha mangiato e se n’è andata, lasciando il piatto sporco in tavola. Allora ho perso la pazienza e le ho detto: “Bea, se non ti piace, cucina tu.” Lei ha solo sbuffato: “Ma io non sono brava come te, Sofia, tu sei più pratica.” Più pratica? Quindi adesso sono la chef ufficiale di casa?
Ho iniziato a pensare a come risolvere la situazione. Prima opzione: sciopero. Smettiamo di cucinare, pulire, fare la spesa. Vediamo come canta Beatrice quando in frigo trova solo il suo yogurt. Ma so già che Antonio e Paolo brontoleranno, e non voglio litigare con mio marito per colpa sua. Seconda opzione: parlarle chiaro. Dirle: “Bea, qui non siamo in un hotel, o aiuti o mangi al ristorante.” Ma ho paura che faccia finta di non capire o si metta a piangere con Paolo, e lui darà la colpa a me. Terza opzione: rassegnarmi. Ma questo non fa per me. Non ho intenzione di fare la cameriera nella mia stessa casa.
A volte sogno che io e Antonio prendiamo un affitto e ce ne andiamo. Ma la casa è l’eredità di Antonio, ci tiene, e anche io mi sono affezionata: c’è il giardino, la veranda, è accogliente. Non voglio rinunciare a ciò che è importante per noi solo per colpa di Beatrice. Ho anche provato a essere furba: ho suggerito di dividere la cucina in “zone di responsabilità”. Ognuno si occupa dei suoi cibi e delle sue stoviglie. Beatrice ha annuito e ha continuato a bere il caffè dalla mia tazza. Sembra proprio indistruttibile.
La mia amica, quando mi sono sfogata, mi ha consigliato: “Sofia, dalli un compito preciso. Digli che il mercoledì cucina lei, punto.” Ho provato. Le ho assegnato il giorno, e lei: “Oh, Sofia, mercoledì ho da fare, puoi farlo tu?” Da fare? Scorrere i social? Sono a un passo dal appendere in cucina un calendario con scritto: “Beatrice, il tuo turno—o pizza o digiuno.” Forse quello la smuoverà.
Per ora cerco solo di non esplodere. Cucino, pulisco, ma ogni volta che vedo la sua tazza sporca, immagino di consegnarle un premio per “maestra dell’ozio.” Antonio promette di parlare con Paolo, ma dubito servirà a qualcosa. Beatrice è come un gatto che fa quello che vuole, solo che mangia dalla mia ciotola. Ma troverò il modo di metterla in riga. Questa casa è nostra, e non permetterò a una cognata pigra di trasformarla nel suo personale albergo. Intanto, continuo a sognare il giorno in cui, almeno una volta, laverà un piatto. I sogni si avverano, no?