La vecchia valigia
Ginevra sbatté la porticina con tale forza che i cani nel cortile iniziarono ad abbaiare. Ancora una discussione con la nonna. Sempre le solite cose: “Annaffia l’orto”, “Aiutami con le conserve”, “Smettila con quel cellulare”. Come se una ragazza di diciotto anni non avesse altro da fare in piena estate!
“Ginevra! Torna qui subito!” le gridò dietro Lidia, ma la nipote era già scomparsa per la stradina polverosa, senza voltarsi. Non aveva una meta precisa, ma tornare indietro era l’ultima cosa che desiderava.
Arrivò al lago e si sedette sulla riva, guardando il sole scivolare lentamente dietro la fila di cipressi. La rabbia le stringeva il cuore: verso i genitori, partiti per la Germania per lavoro e lasciatela lì; verso la nonna, che invece di lasciarla andare in città l’aveva trascinata in questo paesino sperduto. Ormai era stata ammessa all’università, una vita nuova l’attendeva, e invece eccola lì, a combattere con barattoli di marmellata.
Il mattino dopo, la nonna bussò alla sua porta.
“Ginevra, dammi una mano, no? Devo portare i barattoli in cantina. Con questi scalini traballanti, da sola non ce la faccio.”
Con un sospiro, Ginevra si alzò, si lavò la faccia e si mise al lavoro. I barattoli erano pesanti e la scala di legno scricchiolava a ogni passo. Fece diversi viaggi. Proprio mentre stava per finire, notò in un angolo una vecchia valigia impolverata, logorata dal tempo.
“Nonna! Che ci fa questa valigia qui in cantina?”
“Non ne ho idea… Forse l’ha lasciata tuo nonno. Da quando non c’è più, non ho mai messo piede qui sotto.”
La curiosità travolse Ginevra. Ignorando le proteste della nonna, trascinò la valigia alla luce. La stoffa era sbiadita, la serratura arrugginita.
“Lascia perdere quella robaccia,” borbottò Lidia. “Chissà cosa c’è dentro.”
Ma Ginevra aveva già iniziato a rovistare tra camicie ingiallite, fotografie e bigliettini. In fondo, trovò una busta ben piegata. Sopra, scritto con una grafia che riconobbe subito, c’era: “Per Caterina. Perdonami e comprendimi.”
“Posso?” chiese, guardando la nonna.
Lei annuì. Ginevra iniziò a leggere. La lettera era piena di rimpianti. Il nonno, Marcello, chiedeva perdono a questa Caterina. Parlava del suo amore e di come l’avesse rovinato con la sua gelosia. La data? 1969. La nonna impallidì.
“È… un anno dopo il nostro matrimonio,” sussurrò.
“Forse è meglio lasciar stare,” disse piano Ginevra.
“No. Adesso devo sapere. Dov’è questo posto di cui scrive? Quel luogo dove ha ‘spezzato i suoi sogni’?”
Quella sera, la nonna chiese a Ginevra di cercare dei biglietti per un paesino vicino a Verona.
“Fallo per me. Devo vedere quella strada.”
Il giorno dopo, partirono in treno. Il viaggio fu lungo, e per tutto il tempo la nonna parlò. Della sua gioventù, di come aveva conosciuto Marcello, del loro amore. Eppure, dentro di sé, aveva sempre portato il dubbio che lui non fosse mai stato completamente suo.
Arrivate, presero un taxi e seguirono l’indirizzo della lettera. La casa era una villetta di mattoni, ben tenuta. Mentre erano davanti al cancello, una voce alle loro spalle le fece sobbalzare:
“Cercate me? Dalla pensione?”
Si voltarono. Davanti a loro c’era una donna sulla settantina, energica, con occhi vivaci.
“Buongiorno. Scusi, conosce Caterina Rossi?” chiese Lidia.
“Mia figlia,” sorrise la signora. “Ma vive a Trieste ormai da anni.”
“E Marcello Bianchi lo conosce? Io sono… sua moglie.”
La donna le invitò in casa. Si presentò come nonna Adele. Raccontò che Marcello aveva prestato servizio lì anni prima. Caterina, sua figlia, lavorava come infermiera. Si erano innamorati, stavano per sposarsi, ma qualcuno aveva sparpagliato voci su un tradimento. Marcello le aveva credute e se n’era andato. Caterina non lo perdonò mai, ma continuò ad amarlo. Due anni dopo, si fidanzò con un altro. Un mese prima delle nozze, arrivò una lettera di Marcello. Ma Adele la aprì, la lesse, e la rispedì indietro.
“Volevo che iniziasse una vita nuova. E, sai, non me ne sono mai pentita. È felice. Ha avuto una bella famiglia. E tu, Lidia, hai vissuto una vita dignitosa. Quindi, tutto è andato come doveva andare.”
Uscirono in silenzio. Gli occhi di Lidia erano lucidi.
“E se l’avesse perdonato…?” mormorò quella notte, in albergo.
“Nonna, il passato non si cambia,” rispose dolcemente Ginevra. “Tu sei stata sua moglie. Lui ti ha amata. E tu lui.”
Lidia annuì, strinse la nipote tra le braccia e, per la prima volta da tantissimo tempo, sorrise.