Un Nuovo Matrimonio e Due Figliastri: Il Mio Inferno Quotidiano

Mio figlio ha portato in casa una nuova moglie con due bambini. Ogni giorno per me è un inferno.

Sono tre anni che vivo, come intrappolata in un incubo senza fine. Tutto è iniziato quando mio figlio Matteo, un uomo di trentacinque anni, ha presentato la sua nuova moglie, una donna di nome Silvia, con due figli già avuti da un precedente matrimonio. All’inizio diceva che sarebbe stato solo per poco. Provvisorio. Quante volte noi donne crediamo a questa parola…

Sono passati tre anni. Ora nel nostro appartamento di Roma non abita più una semplice famiglia, ma un esercito: io, mio figlio, sua moglie, i suoi due bambini e… lei è di nuovo incinta. A quanto pare, Dio nella mia vecchiaia mi ha negato la pace, il comfort, persino il semplice respiro tranquillo. Forse mi sta punendo per qualcosa.

Silvia non è disabile, non è malata, ha poco più di trent’anni. Ma non vuole lavorare. Dice che è “troppo occupata con i bambini”. Peccato che i figli vadano all’asilo ogni mattina, mentre lei no. Non va in ufficio. Va a passeggiare. O dalle amiche. O a farsi le unghie. Dove esattamente, non lo so.

All’inizio Matteo mi assicurava: avrebbero sistemato i documenti, trovato un lavoro, affittato un appartamento o chiesto un mutuo. Io ho creduto. Sono una madre, e spero sempre. Ma è passato un anno, poi un secondo, e ora siamo al terzo. Nulla è cambiato. Solo la pancia di Silvia è cresciuta.

Non posso dire che sia apertamente scortese con me. Non è maleducata, parla con gentilezza. Ma a casa non fa nulla. Né pulire il pavimento, né lavare i piatti, né cucinare. Non si occupa nemmeno davvero dei suoi figli: accende i cartoni animati, gli mette qualcosa in mano e passa il tempo col telefono. La sera, solo silenzio da lei e urla dai bambini.

Tutto il lavoro domestico ricade su di me. Mi sveglio alle quattro del mattino. Faccio le pulizie in due uffici, lavo i pavimenti, torno a casa alle otto, e prima ancora di farmi un caffè, devo già pulire, lavare e cucinare. Mentre gli altri sono fuori, rimango sola a strofinare la cucina perché non si appiccichi al grasso, a stirare i vestiti, a preparare il pranzo. Perché quando tornano, devono mangiare. Poi ancora lavoro, la cena, e solo dopo le nove posso finalmente sedermi. A volte piango, ferma in cucina. Per la stanchezza.

La mia pensione se ne va tra bollette e spesa. Lo stipendio di Matteo non basta per tutta questa tribù. E Silvia, ovviamente, è “in maternità”. Anche se l’ha decisa molto prima del dovuto.

L’altro giorno ho provato a parlare con mio figlio. Gli ho detto che l’appartamento è piccolo, che siamo troppi, che sono stanca e la salute mi sta abbandonando. Sono perfino finita in ospedale—la pressione è schizzata alle stelle mentre cucinavo. Il medico mi ha proibito di affaticarmi. E lui si è solo scrollato le spalle:
“Mamma, non vivi qui da sola. L’appartamento è anche mio. Non possiamo andarcene. Non abbiamo soldi. Devi sopportare.”

Ecco la risposta.
Ecco il ringraziamento.
Ecco mio figlio.

Penso di andarmene. Chiedere un prestito, indebitarmi, ma trovare un posto mio. Anche se più piccolo, anche se da ristrutturare. Basta che ci sia silenzio. Che non ci sia nessuno. Perché non ce la faccio più. Non reggerò un altro bambino in questa casa. Qui non si vive più, si sopravvive.

Non vivo più. Servo. Sono una schiava. Nella mia stessa casa. Nella mia vecchiaia. E la cosa più dolorosa è che nessuno, proprio nessuno di loro, si chiede come mi senta. Loro vivono, e aspettano che io cucini, pulisca, stia zitta.

Vorrei urlare, ma stringo i denti. Sono stremata, eppure continuo. Perché altrimenti ci sarebbe solo sporcizia, fame, freddo. Perché sono una madre. Perché sono una nonna. Perché sono sola.

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