La Vecchia Valigia

La vecchia valigia

Vittoria sbatté fuori dalla porta con un tonfo che fece abbaiare i cani nel cortile. Ancora una lite con la nonna. Sempre la stessa storia: “Annaffia l’orto”, “Aiutami con le conserve”, “Non stare sempre al telefono”. Come se lei, una ragazza di diciotto anni, non avesse altro da fare d’estate!

“Vittoria! Torna qui subito!” le gridò dietro Lidia Antonietta. Ma la nipote era già in strada, a camminare svelta sulla polverosa stradina di campagna senza voltarsi. Non aveva una meta, ma tornare a casa era l’ultima cosa che voleva.

Arrivò al lago, si sedette sulla riva e guardò il sole tuffarsi lentamente dietro la pineta. I rimpianti le stringevano il cuore: i genitori, partiti per la Germania per lavoro e lasciata lì da sola; la nonna, che invece di lasciarla andare in città l’aveva trascinata in questo buco. Vittoria si era già iscritta all’università, con una nuova vita all’orizzonte — e invece era lì a sgobbare con barattoli in cantina.

La mattina dopo, la nonna bussò alla sua camera:

“Vittoria, dai una mano, eh? Bisogna portare i barattoli di vetro in cantina. Con queste scale io non ci riesco.”

Con un sospiro, Vittoria si alzò, si lavò la faccia e si mise all’opera. I barattoli erano pesanti, e le scale vecchie. Li portò giù a più riprese. All’ultimo viaggio, nell’angolo della cantina, notò una valigia di tessuto logoro, ricoperta di polvere.

“Nonna! Che ci fa questa valigia qui?”

“Non ne ho idea… Forse l’avrà lasciata tuo nonno. Da quando è mancato, non sono più scesa in cantina.”

La curiosità travolse Vittoria. Ignorando i brontolii della nonna, tirò fuori la valigia alla luce. La stoffa era sbiadita, la serratura arrugginita.

“Lascia perdere quella robaccia,” borbottò Lidia Antonietta. “Chissà cosa c’è dentro.”

Ma Vittoria stava già rovistando tra camicie vecchie, fotografie e biglietti ingialliti. In fondo, c’era una busta accuratamente piegata. Sopra, scritto a mano: “A Carla. Perdonami e capiscimi”. La calligrafia era inconfondibile: quella del nonno.

“Posso?” chiese Vittoria, guardando la nonna.

Quella annuì. Vittoria iniziò a leggere. La lettera era piena di rimpianti. Il nonno, Raffaele, chiedeva perdono a una certa Carla. Parlava di quanto l’avesse amata e di come avesse rovinato tutto con la sua gelosia. La data era il 1969. La nonna impallidì.

“È… un anno dopo il nostro matrimonio,” sussurrò.

“Forse è meglio lasciar stare,” disse Vittoria piano.

“No. Ora devo sapere. Dov’è quel posto di cui scriveva, ‘dove ho spezzato i suoi sogni’?”

A tarda sera, la nonna le chiese di cercare biglietti per una cittadina vicino a Bologna.

“Fallo e basta. Devo vedere quella strada.”

Il giorno dopo, partirono insieme in treno. Il viaggio fu lungo, e la nonna parlò per tutto il tempo. Della giovinezza, di come aveva conosciuto Raffaele, del loro matrimonio d’amore. Eppure, dentro di lei, c’era sempre stata l’ombra del dubbio che lui non fosse mai stato completamente suo.

Arrivate, presero un taxi e andarono all’indirizzo della lettera. La casa era un grazioso edificio di mattoni rossi. Mentre stavano davanti al cancello, una voce alle loro spalle chiese:

“Cercate me? Dalla pensione?”

Si voltarono. Davanti a loro c’era una donna sulla ottantina, robusta, con gli occhi vivi.

“Buongiorno. Scusi, conosce Carla Minelli?” chiese Lidia Antonietta.

“È mia figlia,” sorrise la signora. “Ma vive a Firenze da anni.”

“E Raffaele Esposito lo conosce? Io sono sua moglie…”

La donna le invitò dentro. Si presentò come nonna Ada. Raccontò che una volta Raffaele era di stanza lì. Carla, sua figlia, faceva l’infermiera nella caserma. Si erano innamorati, stavano per sposarsi, ma qualcuno aveva sparsMa la loro storia finì quando un pettegolezzo li divise, e Raffaele partì senza mai più tornare, lasciando dietro di sé solo quella valigia dimenticata e un amore che forse, in un’altra vita, sarebbe stato diverso.

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