«Vacanze dalla suocera sfociano in una piccola rivoluzione»

La mia “vacanza” dalla suocera si è conclusa con una piccola rivoluzione

Mi chiamo Lucia. Ho trentacinque anni, sono sposata con Marco e abbiamo due figli. Sono sempre stata attiva e instancabile — fin dall’asilo cercavo di organizzare esercizi per tutto il gruppo, a scuola era la rappresentante di classe, all’università l’anima delle feste. La mia energia, credo, me l’ha trasmessa la mia adorata nonna, con cui passavo tutte le estati in campagna. Amavo la vita rurale e non mi sono mai tirata indietro di fronte al lavoro.

Fu così che conobbi Marco: decisi di organizzare una pulizia nel parco cittadino e lui fu uno dei pochi che si presentò ad aiutare. Insieme raccogliemmo i rifiuti, chiacchierammo e poi andammo al cinema. Da lì è nato tutto. Dopo un anno mi chiese di sposarlo e io accettai con gioia.

All’inizio vivemmo dai miei genitori, poi risparmiammo per il primo mutuo. Nacque nostro figlio, uguale al padre, e due anni dopo anche nostra figlia. Marco lavorava senza sosta, ma trovava sempre il tempo per aiutare in casa, senza mai lamentare che fosse stanco. Io, invece, cominciavo a sentirmi esausta. La maternità non è solo gioia, ma anche notti insonni, stanchezza cronica e ansie. Mio marito notò la mia fatica e mi propose di andare a riposarmi con i bambini da sua madre, in campagna. Io, ingenua, fui felice: ricordavo quanto fosse bello stare dalla nonna. Speravo di riprendermi un po’.

Marco ci accompagnò e la suocera ci accolse con pane e vino, addirittura apparecchiando la tavola. I bambini si addormentarono in veranda, mentre a me preparò il canto nel vecchio letto di suo figlio. Sembrava la serata perfetta. Ma all’alba, appena spuntò il sole, mi svegliò un urlo:

“Dormi ancora, signora? Alzati! La mucca non si munge da sola!”

Controllai il telefono: erano le 5 del mattino. Mi alzai a fatica. Volevo lavarmi, ma lei mi sibilò:

“Ti laverai dopo, tanto ti sporcherai comunque!”

Tacqui, mi cambiai e andai nella stalla. Continuava a brontolare per strada, dicendo che ero “di città”, “non abituata”, ma quando presi con sicurezza il secchio e sapevo mungere meglio di lei, si zittì. Poi diedi da mangiare agli animali, mi lavai le mani e mi avvicinai:

“Non mi rifiuto di aiutare. Ma lasciami fare a modo mio.”

“Fai pure, se sei capace,” borbottò lei.

E mi misi al lavoro. Sistemai l’orto, zappai le aiuole, dipinsi il recinto, organizzai la vendita del latte e delle verdure ai vicini, costruii una compostiera e iniziai a posare le tubature — il vecchio bagno esterno aveva urgente bisogno di una ristrutturazione. Quando scavammo la fossa, la suocera esclamò:

“Ma che diavolo è questo?!”

“Mamma, ti sei lamentata che l’acqua va a malapena. Ecco la fognatura.”

A quel punto non resistette e chiamò di nascosto suo figlio:

“Marco, vieni a prendere tua moglie. Non mi dà tregua!”

“Cosa è successo?”

“Vieni e vedrai.”

Quando entrai, nascose in fretta il telefono e mormorò:

“Sto pregando, figlia mia…”

“Bene. Ma poi sterilizzeremo i barattoli. Ho raccolto i cetrioli, li metteremo sott’aceto. Domani toccherà alle ciliegie, poi alle mele. Ho già parlato con il vicino.”

La suocera sospirò. E io, con rinnovata energia, continuai a sistemare la fattoria.

Alla fine della settimana arrivò Marco. Sua madre gli corse incontro:

“Portala via! Non ne posso più! È come un motore, non smette mai! Io dovrei riposarmi e invece chiedo aiuto anch’io!”

Marco alzò le spalle:

“Mamma, volevi una brava aiutante. Ecco eE mentre partivamo, mia suocera si asciugò una lacrima affrettata, non di tristezza ma di puro sfinimento, e io sapevo che finalmente avevo conquistato il suo rispetto, anche se forse un po’ a suon di vangate.

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