Mi chiamo Elena. Ho trentasei anni. Alle spalle ho un matrimonio fallito, anni di lotte interiori e un senso di colpa enorme, a volte soffocante, verso la persona più preziosa della mia vita: mia madre. E ora che il destino sembrava offrirmi una nuova possibilità di felicità, mi sono trovata davanti a una scelta terribile, che mi lacera il cuore.
“Elena, non so proprio cosa fare…” dissi all’amica Natalia al telefono, seduta vicino alla finestra mentre fissavo il cielo grigio di Roma. “Andrea è meraviglioso. Affettuoso, forte, affidabile. Con lui mi sento una donna. Mi propone di trasferirci insieme… Ma dove metterò mia madre? Lo sai com’è…”
Sì, Natalia lo sapeva. Tutti i miei cari sapevano che mia madre non era semplicemente un “parente affettuoso”. Era una donna che, col tempo, era diventata sempre più possessiva: autoritaria, pungente, bisognosa di attenzioni continue, ma anche fragile. E quando le presentai Andrea, tutto andò storto.
Appena lo incontrò, iniziò subito a fare stranezze. Lo chiamava con nomi sbagliati, fingeva di confondersi, anche se la sua memoria era perfetta. Poi “per sbaglio” rovesciò l’insalata sulle sue ginocchia. Andrea se ne andò. E lei, subito dopo, simulò un infarto. Chiamai l’ambulanza, ma appena i medici se ne furono andati, si addormentò tranquilla. Io rimasi in cucina fino all’alba, piangendo senza capire perché mi toccasse tutto questo.
Nell’ultima nostra conversazione, Andrea fu chiaro:
“Elena, dovresti pensare a una casa di riposo. Lì se ne prenderanno cura di lei, tu potrai respirare, e noi inizieremo la nostra vita insieme.”
Non risposi subito. Ma dentro di me si risvegliò un ricordo, venuto dal profondo.
A ventidue anni mi ero innamorata di un collega, Vittorio. Vivevo con mia madre in un bilocale. Lei era contraria. Totalmente. Io e Vittorio ci sposammo in segreto, e lui venne a vivere con me. O meglio, con noi.
E iniziò l’inferno. Mia madre mi chiamava da una stanza, Vittorio dall’altra. Mi sentivo dilaniata. Le lacrime erano all’ordine del giorno. Dopo un anno, lui se ne andò.
“Sei una brava persona, Elena. Ma finché tua madre sarà accanto a te, non sarai mai felice,” furono le sue ultime parole.
Rimasi sola. E mi rassegnai. Fino ad Andrea. Fino a quando qualcuno non mi ha teso di nuovo la mano. E ora, di nuovo, un vicolo cieco.
Con Andrea andammo a visitare una casa di riposo. Era pulita, ordinata, curata. Ma l’atmosfera… sembrava gelida. Gli anziani sedevano in silenzio, fissando il vuoto. Qualcuno passeggiava nei giardini, ma nessuno sorrideva. Non resistetti e chiesi a un’assistente:
“Perché sono tutti così tristi?”
“Perché sono soli. Sono stati abbandonati. I familiari non vengono mai, non telefonano nemmeno. E loro aspettano. Ogni giorno. Si siedono vicino alle finestre, vanno ai cancelli…”
Tornando a casa, rimasi in silenzio. Dentro, mi sentivo a pezzi. Davanti agli occhi vedevo i ricordi: mia madre che mi copriva la notte quando stavo male, che correva in farmacia dopo il lavoro, che si era caricata tutta la mia vita sulle spalle. Sì, era difficile. A volte insopportabile. Ma era mia madre.
Quando arrivammo a casa, Andrea chiese:
“Allora, quando iniziamo a prepararla per il trasferimento?”
Mi voltai verso di lui e dissi:
“Mai. Non posso tradirla. Sarebbe meschino. Mia madre mi ha donato la sua vita. Non è perfetta, ma le sarò sempre grata. Se vuoi stare con me, devi trovare un modo per andare d’accordo con lei. Altrimenti, non siamo fatti per stare insieme.”
Mi girai e me ne andai. Lui non mi chiamò. Non il giorno dopo, né la settimana dopo. Credo abbia fatto la sua scelta.
Io ho fatto la mia. Forse non avrò mai fortuna in amore. Forse rimarrò di nuovo sola. Ma non potrei mai vivere sapendo che mia madre piange in un istituto, perché l’ho scambiata per il “benessere” di qualcun altro. Non sarebbe un patto equo. Non sarebbe amore. E non sarei io.
Forse un giorno mi innamorerò ancora. Ma una cosa la so per certo: la mia coscienza sarà pulita. E il mio cuore, vivo.