**12 Marzo 2005**
Mio padre si è ricordato di me… solo quando ha sentito il profumo dell’eredità di nonna.
La mia vita non è mai stata semplice, ma il colpo più duro non è stato crescere senza genitori. È stato vedere apparire sulla soglia di casa un uomo che una volta chiamavo papà — dopo quasi quindici anni di silenzio. E non è venuto con fiori o scuse. È venuto con una richiesta: «Dividi l’eredità».
I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni. Mia madre si perse nell’alcol, il tribunale le tolse la patria potestà, e mio padre, incapace di fare il genitore, mi portò dalla nonna in un paesino sperduto nelle campagne vicino a Verona. Lui viveva in città e si faceva vivo raramente — una volta ogni sei mesi, se andava bene.
Frequentai la scuola del paese, imparai a coltivare l’orto, a cucire con la vecchia macchina da cucire, a pescare nel fiume, a preparare le conserve e i mazzetti di erbe aromatiche. La vita con nonna era semplice, ma autentica. In terza elementare, mio padre arrivò con una donna sconosciuta. Mi mandarono fuori a giocare. Quando tornai, c’era solo nonna, seduta sulla sua poltrona con gli occhi lucidi.
«Dov’è papà?» chiesi.
«Non tornerà più, Lucietta» mi disse.
E infatti, non tornò. Si rifatto una famiglia e dimenticò di avere una figlia. Io e nonna continuammo a vivere insieme. Non mi lamentavo — avevo lei. Saggia, tranquilla, severa e buona. Era tutto per me: madre, padre, amica.
Quando finii la terza media, zia Anna, la sarta del paese, mi disse:
«Hai le mani d’oro. Andiamo a studiare in città, non sprecare il tuo talento tra i campi».
Ascoltai. Partii. Studiai, lavorai, non mi persi d’animo. Mio padre viveva a due fermate di autobus dal mio studentato, ma in quattro anni non si chiese mai se fossi viva. Io non lo cercai.
Dopo il diploma, trovai lavoro in una sartoria, sposai Luca. Affittavamo un buco di appartamento, ma ogni venerdì tornavamo dalla nonna. Lei adorava Luca. Fu felice quando seppe che aspettavo un bambino. Ma non fece in tempo a conoscere suo nipote…
Quando nonna morì, il mondo mi parve vuoto. Poi arrivò il notaio: la casa, il terreno, i risparmi — tutto era mio. Piansi come una fontana davanti a quel documento. Non per i soldi, ma per il ricordo.
Mio padre non venne al funerale. Nessuna chiamata, nessuna parola. Seppe della morte di sua madre solo sei mesi dopo. E dell’eredità. E allora, per la prima volta in quindici anni, bussò alla mia porta.
Non lo riconobbi subito, quel viso invecchiato. Non fece giri di parole:
«L’eredità di nonna va divisa. A me spetta metà».
Gli risi in faccia. Amaro, senza freni:
«A te? La metà? Tu hai rinunciato a me e a tua madre. E ora ti ricordi? Hai sentito l’odore dei soldi?»
Digrignò i denti, ma Luca si mise al mio fianco:
«Vai via. O ti aiuto io».
Mio padre fece causa. Ma persino la legge era dalla mia parte. Perse, pagò le spese, sparì di nuovo.
Io e Luca aprimmo una piccola sartoria. Cucivamo abiti da lavoro — per muratori, medici, benzinai. Non mancavano le commesse. Costruimmo la nostra vita.
Di mio padre non ho più avuto notizie. E non mi interessa. La nonna è stata la mia vera famiglia. Sono ancora in piedi perché lei un giorno decise che meritavo di più. E io vivo ogni giorno perché possa essere fiera di me. Lassù, oltre le nuvole.
**Morale:** Il sangue non fa famiglia. L’amore, invece, costruisce legami indistruttibili.