Oggi ho deciso di scrivere di una storia che mi ha fatto riflettere molto. Si dice che nella vecchiaia si raccoglie ciò che si è seminato. C’è chi raccoglie amore e cordialità, e chi invece solo il vento freddo di una porta sbattuta in faccia. Mia suocera, Ludovica Rossi, non è mai stata una donna affettuosa. Si è sempre comportata con un’aria di superiorità, come se tutti le dovessero qualcosa. Soprattutto suo figlio, e ovviamente io, “quella ragazza che gli ha portato via il figlio”.
Molti anni fa, durante il mio secondo congedo di maternità, mentre mio marito aveva perso il lavoro, non riuscivamo più a pagare il mutuo. Chiedemmo ospitalità a Ludovica, nella sua grande casa a Milano, ereditata dal padre. All’epoca vivevano già lì il suo figlio minore, Davide, e poi arrivammo noi con i due bambini. Speravamo fosse temporaneo, ma diventò presto un inferno.
Non perdeva occasione per criticare. I bambini la disturbavano, puzzavano. I giocattoli sul divano la facevano infuriare. Il cibo per il piccolo lo chiamava “broda puzzolente” che le occupava il frigo. Io cercavo di tacere, di sopportare, solo per non peggiorare le cose. Ma un giorno ci disse chiaramente:
“Avete stancato. Preparatevi, andatevene. Non posso più vivere in questo caos.”
Eravamo umiliati. I soldi dalla vendita del nostro vecchio appartamento erano quasi finiti tra debiti e spese. Con fatica comprammo una casetta vicino a Como, senza acqua corrente, senza bagno. Dovevamo usare il pozzo e una latrina in fondo al giardino.
Passo dopo passo, abbiamo ricostruito la nostra vita. Usammo gli aiuti statali, altri prestiti. Dieci anni dopo, finalmente avevamo una vera casa. Non un palazzo, ma con doccia, riscaldamento, una cucina nuova. Proprio quando sembrava finito il peggio e stavamo pensando a un terzo figlio, il destino ha bussato di nuovo alla porta. O meglio, è arrivata lei.
Sentii il cancello aprirsi. Sulla soglia c’era Ludovica, col cappotto, una valigia e il volto gonfio di pianto. Quando mio marito aprì, gli cadde tra le braccia singhiozzando, come se tornasse non in una casa, ma alla salvezza.
La facemmo entrare, le offrimmo un caffè. Mio marito chiamò Davide, ma invano. Solo la sera si riprese.
Dopo che ce ne andammo, aveva cercato di “rieducare” Davide. Gli sussurrava che suo fratello era un traditore e che io avevo rovinato la famiglia. Alla fine, Davide si sposò e la lasciò. Ma non per sempre. La prese a vivere con la nuova moglie. All’inizio andò bene. Poi arrivò un bambino, e Ludovica ricominciò: odori, rumori, la minestra sbagliata. Ma la nuora non era disposta a tollerarla.
Prima la relegarono al divano. Poi con scuse la spinsero fuori. La camera diventò la stanza del bambino. A tavola non c’era più posto per lei, e alle lamentele rispondevano: “Se non ti va bene, puoi andartene.”
“Perché non provi da Matteo?” le disse Davide una sera a cena. Lo stesso che anni prima l’aveva aiutata a cacciarci.
E così fecero. Valigia in mano, taxi per la stazione, biglietto pronto. Davide aggiunse:
“Non ti cancelliamo dalla residenza. La pensione di Roma prendila pure, ma vivi dove vuoi, purché non qui.”
Non potevamo rifiutarci. Nella nostra casa c’è posto. Per ora sta zitta. Nessun rimprovero. Ci guarda, soprattutto i bambini, con una tristezza tardiva.
Forse la vecchiaia ammorbidisce il cuore. O forse è solo paura di restare soli. Io per ora taccio. Ma una cosa è certa: non caccerò nessuno. Nemmeno lei. Nemmeno chi un tempo ci ha cancellato dalla sua vita.
La lezione? Il male fatto torna, ma il perdono è l’unico modo per spezzare la catena.