Come sono arrivato qui

Nella stanza si sentiva odore di medicine scadenti, cavolo bollito e vecchiaia, così densa che sembrava poterla raccogliere con un cucchiaio. Lidia Romano sedeva sul bordo del letto, tirandosi sulle dita l’orlo sbiadito della vestaglia – quella stessa con cui una volta sorseggiava il caffè alla finestra della sua cucina. A casa. Quando ancora aveva una casa…

Nell’altro letto c’era una donna vent’anni più vecchia. Immobile come una statua, lo sguardo perso nel vuoto. I suoi occhi smorti fissavano il muro, come se là ci fosse una finestra su un altro mondo.

All’improvviso, si alzò lentamente, afferrò una sedia e la trascinò accanto a Lidia.

“Liduccia, dimmi… come sei finita qui?” sussurrò l’anziana, sedendosi con fatica vicino a lei. Nei suoi occhi sbiaditi c’era la stessa vulnerabilità di una bambina. Come se non fosse affatto una vecchia signora, ma solo una ragazzina abbandonata dal mondo.

Lidia avrebbe voluto scrollarsi di dosso la domanda. Dirle che tanto non avrebbe capito, non avrebbe sentito, non avrebbe ricordato. Ma invece parlò. Perché forse, per la prima volta da tanto tempo, qualcuno aveva voglia di ascoltarla.

“Tutto è cominciato con il silenzio…” La sua voce tremò. “Prima, Enzo ha iniziato a chiamare sempre meno. Una riunione di lavoro, poi il nipote da portare in palestra, poi semplicemente non faceva in tempo. Laura, sua moglie, non è mai stata interessata alla suocera. E Matteo, mio nipote… un ragazzino, ha altro per la testa. Lo capisco.”

La compagna di stanza ascoltava, piegando leggermente il busto in avanti, annuendo. Era in quella casa di riposo da tre anni, e ogni racconto le sembrava riguardasse lei.

“Poi hanno smesso di festeggiarmi. Il mio compleanno è passato come un giorno normale. Poi l’8 marzo. E poi Capodanno. Io… io continuavo ad aspettare. Ho fatto una crostata di mele, quella che piaceva tanto a Enzo da piccolo. Ho apparecchiato. Ho messo la nostra foto. Quella in cui era piccolo, con i pantaloncini, sulla spiaggia dell’Adriatico. Io ero ancora giovane… sorridevo. Guardavo quella foto e pensavo: verranno. Devono farlo. Me l’avevano promesso.”

Lidia sospirò profondamente. Le lacrime brillavano ai suoi occhi. L’anziana le posò timidamente una mano sulla spalla.

“E invece sono venuti. Di sera. Tardi. Restavano in piedi nel corridoio, Enzo con lo sguardo a terra. ‘Mamma’, dice, ‘abbiamo deciso…’. Il resto è confuso, come in una nebbia. Ma le sue parole suonavano come una condanna: ‘Matteo ha bisogno della sua stanza. E tu… qui starai meglio. Cure, medicine, assistenza…'”

“E tu cos’hai risposto?” sussurrò la vicina.

“Che potevo dire?” Lidia scosse la testa. “Ero senza parole. Ho solo balbettato: ‘Ma io… io…’. Loro avevano già deciso. Arrivarono gli uomini con le scatole. Portarono via il mio scaffale, quello con gli intagli a fiori. Cercai di trattenerlo, e Matteo era là, col telefono in mano. Neanche un’occhiata. Né un ‘ciao’, né un ‘grazie’. Come se non fossi mai esistita.”

“E adesso? Ti chiamano?”

“Ieri Enzo mi ha chiamato,” disse Lidia con un sorriso amaro. “Mi ha chiesto: ‘Come stai là dentro?’. E io gli ho risposto: ‘Ti ricordi quando da piccolo, durante i temporali, ti infilavi sotto le coperte con me? Tremavi come un passerotto…’. E lui: ‘No, non me lo ricordo’. Ecco. Non ricorda. O fa finta.”

La compagna di stanza le prese la mano. Calda, secca, con le dita nodose. Tacque.

“E sai qual è… la cosa più divertente?” continuò Lidia. “L’hanno affittata, la mia casa. I soldi servono per Matteo – lezioni private. Intanto, dice, almeno la stanza non resta vuota. Ora c’è un corso di yoga. ‘Hatha’, credo. Te lo immagini? Al posto dove c’era la mia credenza, adesso ci sono donne che si contorcono sui tappetini…”

Nel corridoio, il carrello con i vassoi cigolò di nuovo. Fuori, il sole tramontava lentamente, tingendo tutto di un rosso dorato. C’era silenzio. Troppo silenzio.

“Ma io ricordo tutto,” sussurrò Lidia Romano. “Tutto. Il suo primo dentino, le notti in cui lo cullavo, quando prese il suo primo sette e scoppiò a piangere. Quanto speravo che sarebbe cresciuto felice. Ho dato tutto, tutta la mia vita. E adesso… adesso sono solo un peso.”

La vicina la strinse fra le braccia. Poggiò la guancia sulla sua testa grigia. La sua mano – esattamente come quella della mamma di Lidia, tanti anni prima. Ruvida, secca. Un tempo salvava da tutto. Ma non dalla solitudine.

Rimasero sedute in silenzio. In quella stanza semibuia, fra l’odore di cavolo e disinfettante. Tra un passato che era stato caldo e un presente fatto solo di ombre e silenzi infiniti.

E una sola domanda restava, insistente:

Ma se poi, un giorno, si ricordassero davvero?

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