Lo sposo è scappato

Lo squillo del telefono interruppe il silenzio del mattino. Adele, ancora assonnata, riconobbe la voce roca e nervosa di Marco dall’altro capo:

“Adele… io… devo dirti una cosa…” Esitò, come se cercasse le parole giuste. “Ho riflettuto molto… Non sono pronto. Capisci? Non sono pronto per sposarmi. Sono confuso, non so più cosa provo per te.”

Adele rimase immobile. Il cuore le batteva forte nelle orecchie. Riuscì a sussurrare:

“Davvero? Una settimana prima del matrimonio?”

“Non ci sarà alcun matrimonio,” rispose lui, con un tono sicuro, quasi avesse provato quel discorso più volte.

“Che?!” esalò lei.

“Voglio ricominciare da zero. La mia carriera, i miei obiettivi. Tu… troverai qualcuno migliore di me. Te lo meriti.”

Click. Riattaccò.

Adele restò seduta, paralizzata. Poi, come in trance, si alzò, andò all’armadio e tirò fuori una bottiglia di grappa. Bevve direttamente dal bicchiere, senza nemmeno assaporarlo. Senza pensieri.

E poi… urlò con tutta la forza che aveva, un grido che sembrò far tremare le pareti.

La loro storia era durata quattro anni. Era sembrato amore vero. Un incontro casuale: Adele aveva portato il suo computer in riparazione, e Marco lo aveva aggiustato. Quando glielo aveva restituito, le aveva chiesto il numero. Due giorni dopo, l’invito a uscire. Lei aveva accettato. E, da lì, tutto era iniziato.

Marco, dopo sei mesi, le aveva confessato che voleva trasferirsi all’estero. “Lì ci sono più opportunità,” diceva.

“Verresti con me?” le aveva chiesto, quasi non credendo che avrebbe detto di sì.

E lei era partita.

Aveva lasciato tutto: il lavoro, gli amici, la famiglia. Perché lo amava. Perché credeva in lui. Perché per lei, lui era tutto.

Lui era partito prima, per “sistemare le cose”. Quando Adele era arrivata all’aeroporto, lui l’aveva accolta senza fiori, senza sorriso, senza quella luce negli occhi.

“Non sei felice?” gli aveva chiesto piano.

“No, è solo che sono stanco. Problemi con il lavoro.”

L’aveva portata in un ostello, in una stanza divisa da una tenda.

“Pensavo avessi affittato un appartamento…”

“All’inizio sì,” aveva borbottato lui. “Poi i soldi sono finiti. Non trovo lavoro.”

Adele l’aveva abbracciato. “Ce la faremo,” aveva detto. E si era messa a lavorare. Non nel suo campo, ma ovunque la prendessero. Puliva, lavava, portava a spasso i cani. Faceva lavoretti ovunque potesse.

E aveva trovato un lavoro anche per lui. Aveva parlato con un cliente, lo aveva convinto. A Marco avevano dato una chance.

Le cose erano migliorate. Avevano affittato un piccolo appartamento. Sognavano un futuro insieme. Parlando di famiglia.

Ma Marco non restava mai a lungo in un posto. Lo licenziavano spesso. Adele tirava avanti da sola. Di nuovo l’ostello, di nuovo la precarietà. Lei lavorava. Lui cercava se stesso.

“Marco, non è il caso di smettere?” aveva sbottato Adele una volta. “Ormai viviamo come vagabondi da quasi due anni. A casa avevamo una vita vera. Qui sopravviviamo. Torniamo?”

Lui aveva annuito in silenzio. Un mese dopo, erano rientrati in Italia.

Adele era tornata al suo vecchio lavoro. L’avevano riassunta con gioia. Marco aveva trovato un impiego grazie a una raccomandazione, con un periodo di prova. L’aveva superato, felice come un bambino.

Qualche settimana dopo, lui le aveva chiesto: “Andiamo in comune a fissare la data?”

Adele era raggiante. Avevano iniziato a organizzare il matrimonio. Lei viveva ancora con i genitori. Di trasferirsi da lui prima delle nozze, non se ne parlava nemmeno.

“I miei genitori sono contro le convivenze,” gli aveva spiegato.

“E allora perché sei venuta con me all’estero?” aveva riso lui.

“Ho detto che sarei andata a trovare un’amica. Non ho detto la verità.”

Lui rideva. Lei sognava.

Poi lui si era buttato in un nuovo progetto. Per due settimane non aveva chiamato. Non aveva scritto. E poi aveva capito: non le mancava.

“Stavo per sposarmi…” aveva pensato. “Ma ne ho davvero voglia? Per tutta la vita? È questo che voglio?”

Si era deciso. Aveva chiamato.

Dopo quella mattina, Adele aveva preso un congedo. Era rimasta a letto una settimana. Piangeva. Non mangiava. Non viveva.

Poi, era arrivata la rabbia.

“Quindi sei confuso? Non sai cosa provi?” sussurrava al vuoto. “E io? Io che sono volata dall’altra parte del mondo per te? Che ho lavorato per due? Non hai nemmeno avuto il coraggio di dirmelo in faccia. Per telefono. Sei scappato. Un vigliacco.”

Prima il dolore. Poi, la determinazione.

“Meno male!” si diceva. “Non sono io che ho perso lui, è lui che ha perso me! Lo sposo è scappato? Non è una mia sconfitta, è la sua! Ora lo so: io vengo prima. Basta sacrifici. Solo avanti. Solo io.”

Uscì di casa. La città era in fiore. La primavera cantava in ogni angolo. Adele camminava, e per la prima volta da tanto tempo sorrideva. Il sole splendeva solo per lei.

Sì, i ricordi sarebbero rimasti. Le lacrime. Le domande senza risposta. Ma non lo chiamò. Non lo supplicò. Non chiese spiegazioni.

“Basta,” ripeteva. “È stata una lezione. Grazie per questo. Sono più forte. Sono bella, intelligente, ho tutto davanti a me. Devo solo andare avanti. Senza voltarmi.”

Dopo qualche mese, raccolse tutti i regali, le foto, gli oggetti che le ricordavano lui. Li mise in una scatola. La portò al cassonetto.

“È ora di fare ordine,” disse alla madre, sorridendo.

E Marco?

Lui… semplicemente va avanti. Dicono che stia ancora cercando lavoro.

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