La mamma mi rimprovera perché non l’aiuto con mio fratello malato, ma dopo la scuola ho raccolto le mie cose e sono scappata di casa.
Beatrice sedeva su una panchina nel parco di Firenze, fissando le foglie che cadavano, danzando nel vento freddo dell’autunno. Il suo telefono vibrò di nuovo—un altro messaggio da sua madre, Anna: “Ci hai abbandonato, Beatrice! Matteo sta peggio, e tu vivi la tua vita come se niente ti riguardasse!” Ogni parola era come un colpo al cuore, ma Beatrice non rispose. Non poteva. Dentro di lei, si combattevano sensi di colpa, rabbia e un dolore che la trascinavano indietro, verso quella casa da cui era fuggita cinque anni prima. A diciott’anni, aveva fatto una scelta che aveva diviso la sua vita in un “prima” e un “dopo”. E ora, a ventitré, ancora non sapeva se fosse stata quella giusta.
Beatrice era cresciuta all’ombra di suo fratello minore, Matteo. Aveva tre anni quando i medici gli diagnosticarono una forma grave di epilessia. Da quel momento, la loro casa era diventata una stanza d’ospedale. La madre, Anna, si era dedicata completamente a lui: medicine, dottori, esami senza fine. Il padre se n’era andato, schiacciato dal peso, lasciando Anna sola con due figli. Beatrice, che allora aveva sette anni, era diventata invisibile. La sua infanzia era svanita nelle cure per Matteo. “Bea, aiutami con tuo fratello”, “Bea, non fare rumore, non può agitarsi”, “Bea, aspetta, ora non ho tempo per te”. Aveva pazientato, ma con gli anni aveva sentito i suoi sogni e desideri spinti sempre più in fondo.
Nell’adolescenza, Beatrice aveva imparato a essere “comoda”. Preparava da mangiare, puliva, badava a Matteo mentre sua madre correva tra ospedali. Le amiche la invitavano a uscire, ma lei rifiutava—a casa avevano sempre bisogno di lei. Anna la lodava: “Sei il mio sostegno, Bea”, ma quelle parole non la scaldavano. Beatrice vedeva lo sguardo di sua madre su Matteo—pieno d’amore e disperazione—e capiva che per lei quello sguardo non sarebbe mai arrivato. Non era una figlia, ma un’aiutante, il cui ruolo era semplificare la vita agli altri. Nel profondo amava suo fratello, ma quell’amore era intriso di stanchezza e risentimento.
All’ultimo anno di liceo, Beatrice si sentiva un’ombra. I compagni parlavano di università, feste, progetti per il futuro, mentre lei non riusciva a pensare ad altro che alle bollette dell’ospedale e alle lacrime di sua madre. Una volta, tornando da scuola, trovò Anna in preda alla disperazione: “A Matteo serve una nuova terapia, e non abbiamo i soldi! Devi aiutarci, Bea, trovati un lavoro dopo le lezioni!” In quel momento, qualcosa in Beatrice si spezzò. Guardò sua madre, suo fratello, le mura che l’avevano soffocata per tutta la vita, e capì: se fosse rimasta, sarebbe svanita per sempre. Le faceva male, ma non poteva più essere ciò che si aspettavano da lei.
Dopo la maturità, Beatrice preparò uno zaino. Lasciò un biglietto: “Mamma, vi amo, ma devo andare. Perdonami”. Con mille euro messi da parte lavoricchiando, comprò un biglietto per Roma. Quella sera, sul treno, pianse, sentendosi una traditrice. Ma nel suo petto batteva anche qualcosa di nuovo—la speranza. Voleva vivere, studiare, respirare, senza voltarsi indietro verso i corridoi degli ospedali. A Roma trovò una stanza in un dormitorio, lavorò come cameriera, si iscrisse all’università da lavoratrice. Per la prima volta, si sentì una persona, non solo una funzione.
Anna non glielo perdonò. I primi mesi, chiamava, urlava, supplicava che tornasse. “Sei egoista! Matteo soffre senza di te!”—la sua voce lacerava Beatrice come un coltello. Mandava soldi quando poteva, ma non aveva intenzione di tornare. Con il tempo, le chiamate si fecero più rare, ma ogni messaggio era carico di rimproveri. Beatrice sapeva che Matteo stava male, che Anna era stremata, ma non poteva più portare quel peso. Voleva amare suo fratello da sorella, non da infermiera. Eppure, ogni volta che leggeva le parole di sua madre, si chiedeva: “Se fossi rimasta, chi sarei diventata?”
Ora Beatrice vive la sua vita. Ha un lavoro in ufficio, amici, progetti per la magistrale. Ma l’ombra del passato non la lascia. Le manca Matteo, il suo sorriso nei giorni buoni. Ama sua madre, ma non può perdonarle l’infanzia rubata. Anna continua a scrivere, e ogni messaggio è un’eco di quella casa da cui Beatrice è fuggita. Non sa se potrà mai tornare, spiegarsi, riconciliarsi. Ma una cosa la sa: quel giorno, quando il treno l’ha portata via da Firenze, ha salvato se stessa. E quella verità, per quanto amara, le dà la forza di andare avanti.