Oggi voglio raccontarvi una storia che è successa nella mia famiglia e ancora oggi mi tormenta. La protagonista è mia cugina Elisa. Una persona dolce, laboriosa e premurosa, che negli ultimi dodici anni ha passato ogni giorno dopo il lavoro con sua nonna, Rosa Vittoria. Puliva, portava la spesa, lavava i vetri, lucidava i fornelli fino a farli brillare, stendeva le lenzuola lavate a mano, ascoltava le lamentele della nonna, le massaggiava le gambe quando si lamentava del gonfiore. Tutto senza mai una parola di rimprovero. Solo perché quella stessa nonna l’aveva cresciuta quando sua madre era troppo occupata con il fratellino e la carriera.
Elisa ha sempre considerato Rosa Vittoria la persona più importante della sua vita. Era lei che le aveva insegnato a cucinare le polpette alla romana, l’aveva portata a teatro quando la mamma era impegnata, l’aiutava con i compiti e sapeva sempre come consolarla quando a scuola la prendevano in giro. Elisa è cresciuta, ha trovato lavoro in banca, ha avuto un figlio, e la nonna rimaneva la sua roccia. Poi, quando Rosa Vittoria ha iniziato a indebolirsi—pressione alta, stanchezza, vuoti di memoria—è stata Elisa a prendersi tutto il peso. Da sola. Senza che nessuno glielo chiedesse. Le bollette? Elisa. La farmacia? Elisa. L’insulina? Elisa. Eppure, Rosa Vittoria aveva una figlia—la madre di Elisa. Con un appartamento suo, un lavoro stabile, una macchina, ma in dodici anni non si era mai presentata con una minestra calda o una bottiglia di succo di frutta.
Poco fa, Elisa ha perso il lavoro. Licenziamento inaspettato, com’è sempre in questi casi. I risparmi sono finiti in fretta, e ha capito che nessuna banca le avrebbe dato un mutuo. Allora, per la prima volta in vita sua, ha affrontato una conversazione che le faceva tremare le mani. È andata da sua nonna di sabato, come sempre: ha pulito, steso il bucato, preparato una tisana alla menta. Poi si è seduta accanto a lei e, con tutta la calma che riusciva a trovare, ha detto:
«Nonna, lo sai che non voglio approfittarmi. Ma… forse potresti lasciare a me la casa? Non adesso, ma un giorno. Sai quanto ti voglio bene. Non voglio finire a vivere in una stanza in affitto con mio figlio. Sono sempre stata come una figlia per te…»
La risposta della nonna è stata fredda come una lama.
«No, Elisa. La casa andrà a mia figlia. A tua madre. Come è giusto che sia. Poi, che faccia quello che vuole.»
Elisa non ha avuto nemmeno il tempo di replicare. La gola le si è stretta e le è sembrato di sentire un ronzio nelle orecchie. Come se tutti quegli anni di aiuto e affetto, tutti i pavimenti lavati e le minestrine fatte con cura, non contassero nulla. Come se non avessero avuto peso.
Se n’è andata in lacrime. Senza neanche salutare. Da allora sono passati giorni, e ancora non ha trovato il coraggio di tornare. Sta a casa, fissa il vuoto e mi chiede:
«Non ho chiesto niente in tutti questi anni. Non me lo sono meritato? È sbagliato volere un futuro sicuro per mio figlio? Perché la nonna, che mi ha sempre amato, improvvisamente vede solo calcolo?»
E io non so cosa risponderle. Conosco Rosa Vittoria da una vita. È una donna severa, con i suoi principi. Per lei l’ordine delle cose è sacro. Chiunque si sia preso cura di lei, la casa deve andare alla «figlia legittima». Il resto, dice lei, è «dovere umano», non una transazione.
Ma l’amore si misura davvero con il sangue? Chi merita gratitudine non è forse chi è rimasto accanto a te, senza chiedere nulla?
Ora Elisa non sa come comportarsi con la nonna. Non vuole ferirla, ma neanche fingere che non sia successo niente. Le brucia l’anima. Si sente tradita.
Non prendo le parti di nessuno. Ma forse, a volte, gli anziani hanno solo paura. Paura di ammettere che la persona più vicina a loro non è la figlia, ma la nipote. Paura che una firma scateni un conflitto in famiglia. Paura del cambiamento. Forse Rosa Vittoria si sta solo difendendo.
E Elisa? Elisa continua a cucinare le minestre. Ma ora lo fa solo per suo figlio. E gli insegna a essere riconoscente. Perché l’ingratitudine fa più male di una coltellata.