**7 Ottobre**
Mai avrei immaginato di passare la vecchiaia dietro le sbarre di una porta sconosciuta, sorvegliato da infermiere e circondato da altri come me, abbandonati dai figli. Paolo Antonio credeva di meritare di più—rispetto, affetto, tranquillità. Aveva lavorato tutta la vita, mantenuto la famiglia, costruito giorni e feste attorno alla sua unica gioia: la moglie Lucia e la figlia Ginevra.
Con Lucia erano stati inseparabili per più di trent’anni. Dopo la sua morte, quattro anni fa, la casa era diventata vuota, fredda. L’unico conforto era Ginevra e la nipotina Sofia. Lui aiutava come poteva—badava alla piccola, passava la pensione per la spesa, la teneva quando la figlia e il marito uscivano al cinema o al lavoro. Poi, all’improvviso, tutto cambiò.
Ginevra cominciò a guardarlo male quando si tratteneva in cucina. Lo infastidiva se tossiva. «Papà, hai già vissuto, lascia vivere gli altri!» ripeteva sempre più spesso. Poi iniziarono i discorsi sul «residenza con ogni comfort», «una casa di riposo con medici e televisione». Paolo cercò di resistere.
—Ginevra, questa è la mia casa. Se ti sta stretta, vai a vivere con tua suocera. Sta da sola in quel trilocale.
—Lo sai che siamo in guerra, io e lei. E comunque, non iniziare!—sbottò la figlia.
—Vuoi solo la casa. Dovresti guadagnartela, invece di cacciare via tuo padre!
Dopo quella discussione, lo chiamò «egoista» e minacciò: «Tanto troverò il modo». Una settimana dopo, lui fece le valigie da solo. Non perché volesse. Ma perché era insopportabile sentirsi di troppo nella propria casa. Se ne andò in silenzio. Ginevra era raggiante. Quasi lo portò fuori in braccio.
Nella casa di riposo gli diedero una stanza piccola, con una finestra e una vecchia televisione. Paolo passava le giornate in cortile, all’aria aperta, tra altri abbandonati come lui.
—Sei qui perché te l’hanno deciso i figli?—gli chiese una volta la vicina di panchina.
—Sì, mia figlia ha pensato che dò fastidio—rispose lui, trattenendo le lacrime.
—Anche io. Mio figlio ha preferito sua moglie. Mi hanno buttato fuori. Io sono Fede.
—Piacere, io sono Paolo.
Diventarono amici. Era più facile sopportare il dolore, accanto a chi capiva. Passò un anno. Ginevra non chiamò mai. Non venne. Non scrisse.
Un giorno, mentre leggeva, sentì una voce familiare.
—Paolo Antonio? Non mi aspettavo di vedervi qui—disse Anna, la sua ex vicina di casa, un’infermiera venuta a visitare i residenti.
—Eh già. Ormai è un anno. Come vedi, non servo più a nessuno. Né una chiamata, né una lettera.
—Strano… Ginevra diceva che avete comprato una casetta in campagna, che siete andati a riposarvi fuori città.
—Magari fosse vero… Invece sono qui, dietro un cancello.
Anna scosse la testa. Ma dopo la visita, tornò. Non riusciva a togliersi quel discorso dalla mente. Due settimane dopo, riapparve con una proposta:
—Paolo Antonio, la casa di mia madre in campagna è vuota. È morta di recente, abbiamo venduto tutto. È calda, solida, c’è il bosco vicino, il fiume. Se vuole, può viverci. Io non ci torno, e venderla mi dispiace.
Paolo rimase in silenzio, poi scoppiò in lacrime. Uno sconosciuto gli offriva quello che sua figlia aveva rifiutato.
—Posso chiedere un’altra cosa? C’è una donna qui… Fede. Anche lei non è voluta da nessuno. Vorrei che venisse con me.
—Certo—sorrise Anna.—Se è d’accordo, nessun problema.
Paolo corse da Fede:
—Prendi le tue cose! Andiamo! Una casa in campagna, aria fresca, libertà. Staremo bene. Che ci facciamo qui?
—Andiamo! Verso una vita nuova!
Fecero le valigie, comprarono da mangiare e partirono. Anna li accompagnò lei stessa, per evitare l’autobus. Paolo abbracciò la vicina, senza parole per la gratitudine. Chiese solo: «Non dirlo a mia figlia. Non voglio neanche sentirne parlare».
Anna annuì, sorridendo. Non aveva fatto nulla di straordinario. Solo agito da essere umano. E oggi, questo è già un miracolo.
**Lezione:** Il sangue non sempre è più denso dell’acqua. A volte, un estraneo ti regala ciò che la tua stessa famiglia ti nega.