Matrimonio Mancato: Lo Sposo Non Arriva All’Altare

Non ci fu un matrimonio. Lo sposo non arrivò all’altare.

Quante ragazze, fin da piccole, sognano un abito bianco, una corona di fiori, i brividi lungo la pelle alle parole «vi dichiaro marito e moglie»… Ginevra era una di queste. Cresciuta timida, riservata, sognatrice e fragile. Chiudeva spesso gli occhi davanti alle cerimonie nuziali in televisione, immaginando il giorno in cui anche lei avrebbe camminato a braccetto con l’amato—sotto musica, sguardi ammirati, il cuore in subbuglio.

Il suo Matteo lo aveva incontrato all’università. Studiavano entrambi giurisprudenza, ma in gruppi diversi. Lui, alto, biondo, atletico, con occhi birichini. Lei, aggraziata, slanciata, dal portamento elegante e dal sorriso dolce. Tutti in facoltà dicevano che fossero fatti l’uno per l’altra. Matteo non si staccava mai da lei. L’accompagnava a casa, le portava caffè nelle mattine gelide, disegnava cuori sui suoi quaderni. La loro storia sembrava uscita da un romanzo—pura, senza veleni.

Passò un anno, e lui le chiese di sposarlo. Alla laurea, le famiglie ormai si conoscevano, andavano insieme in campagna, legate come parenti. Decisero di sposarsi subito dopo gli studi. Tutto sembrava perfetto. Ginevra, con le amiche, passò settimane a cercare l’abito, sfogliando cataloghi, correndo da un atelier all’altro. Una notte, sognò un vestito—pizzo sottile, seta color crema, uno strascico lieve—e al risveglio pensò: *Deve essere mio.*

Andò in un atelier vicino con le amiche. La commessa, Chiara, ascoltò la sua descrizione e sorrise.

—Qualche giorno fa è stato restituito un abito identico a quello che hai detto. Vuoi vederlo?

Ginevra se ne innamorò al primo sguardo, senza nemmeno provarlo. Era come tessuto dal suo sogno. Un’amica le sussurrò: «Chiara dice che il matrimonio di quella sposa non si è fatto… Forse è meglio evitare?» Ma Ginevra non volle sentire ragioni. Destino, era destino. L’abito fu impacchettato, e lei attese il grande giorno con il cuore in gola.

La vigilia, si ritirò in una camera d’albergo per stare sola, riflettere. Indossò di nuovo il vestito, si osservò allo specchio. E per un attimo le parve di vedere, sul suo capo, un nastro nero. Un brivido, poi scacciò quel pensiero, attribuendolo all’emozione.

La mattina, tutto filò liscio: trucco, acconciatura, vestito… Ginevra splendeva come una modella. I genitori, entrando, restarono senza fiato. Non restava che aspettare Matteo. Passò un’ora. Poi altri trenta minuti. Il sorriso di Ginevra svanì. Dalla finestra, vide un’auto della polizia. Qualcosa dentro di lei si spezzò. Uscì nel corridoio, barcollando.

—Scusi… sei Ginevra?— chiese un giovane agente. —Il tuo fidanzato… Matteo… è morto. Un incidente. Un ubriaco ha invaso la corsia opposta. Non ce l’ha fatta.

Ginevra non pianse. Si irrigidì. Poi caddeva a terra, il volto nascosto tra le mani.

Tre giorni dopo, era al cimitero, con lo stesso abito, ma questa volta col nastro nero tra i capelli. Tra le dita stringeva una loro foto. La depose nella bara, si chinò, baciò la fronte gelida dell’amato e sussurrò:

—Perdonami… se avessi saputo, non ti avrei lasciato andare…

Da allora, nessuno la vide più sorridere. Si spense a poco a poco. Visse come un automa. I genitori dissero fosse depressione. I medici, un disturbo dell’adattamento. Ma sua madre sapeva: la figlia se ne stava andando.

Esattamente un anno dopo, nel giorno che sarebbe stato il loro anniversario, il cuore di Ginevra si fermò. I medici scrissero: «morte nel sonno per arresto cardiaco». Tra le sue mani trovarono quella stessa foto di nozze.

L’amore era stato vero. Troppo vero per sopravvivergli.

E voi, ci credete? Che l’amore possa essere così forte da non poterlo sopportare senza?

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