31 dicembre. La neve cadeva lenta sulle strade di Torino, e le luci delle feste brillavano dietro ogni finestra. Dentro le case, le famiglie ridevano, brindavano, si stringevano vicino agli alberi di Natale. Io, invece, ero fuori, da solo, con solo una giacca leggera e le pantofole di casa. Lo zaino nella neve, il vento che mi tagliava il viso. Non potevo crederci.
“Vattene! Non voglio più vederti!” gridò mio padre, sbattendo la porta.
Mia madre? Stava lì, immobile, le spalle strette, gli occhi bassi. Non disse nulla. Non mosse un dito per fermarlo. Quel silenzio fu più forte di qualsiasi urlo.
Francesco Mantovani scese i gradini. La neve gli bagnò i piedi subito. Camminò senza meta. In ogni casa c’era luce, cibo, felicità. Lui, invece, era solo, invisibile, perso in quel bianco silenzio.
La prima settimana dormì dove capitava: fermate del tram, scale di palazzi, cantine. Lo cacciavano ovunque. Mangiò quello che trovò tra i rifiuti. Una volta rubò del pane. Non per rabbia, ma per disperazione.
Un giorno, un vecchio con un bastone lo trovò in una cantina. Gli disse: “Resisti. La gente è cattiva. Ma tu non essere come loro.” E andò via, lasciandogli una scatola di tonno.
Francesco non dimenticò mai quelle parole.
Poi si ammalò. Febbre alta, brividi, delirio. Era quasi morto, quando qualcuno lo tirò fuori dalla neve. Era Angela Rossi, l’assistente sociale. Lo abbracciò e sussurrò: “Tranquillo. Non sei più solo.”
Finì in un centro d’accoglienza. Finalmente caldo. L’odore di minestra e speranza. Angela veniva ogni giorno, portava libri, gli insegnava a credere in sé stesso. “Hai diritto a tutto, anche se non hai più niente,” diceva.
Leggeva, ascoltava, imparava. E giurò che un giorno avrebbe aiutato altri come lui.
Diede la maturità. Si iscrisse all’università. Studiò di giorno, pulì pavimenti di notte. Non si lamentò. Diventò avvocato. Ora difendeva chi non aveva casa, né voce, né diritti.
E poi, un giorno, dopo tanti anni, due persone entrarono nel suo ufficio: un uomo curvo e una donna con trecce grigie. Li riconobbe subito. Suo padre e sua madre. Quelli che l’avevano cacciato, quella notte di gelo.
“Francesco… perdonaci…” sussurrò suo padre.
Lui tacque. Dentro, niente. Niente rabbia, niente dolore. Solo fredda chiarezza.
“Perdonare sì. Ma tornare indietro no. Io per voi sono morto allora. E voi per me.”
Aprì la porta.
“Andate. E non tornate mai più.”
Poi tornò al lavoro. Al prossimo caso. Al bambino che aveva bisogno di aiuto.
Perché lui sapeva cosa significava restare scalzo nella neve. E sapeva quanto fosse importante che qualcuno, in quel momento, dicesse: “Non sei solo.”





