Una tranquilla mattina, in una casetta alla periferia di Bologna, regnava la solita calma che Paolo amava tanto. Una luce soffusa filtrava attraverso le tende, dalla cucina si spandeva l’aroma di caffè appena fatto, e finalmente aveva trovato un raro momento per sedersi con un libro. Ma quel giorno, la pace veniva interrotta da strani rumori — uno scalpiccio maldestro, uno sciabordio e un bambino che sussurrava “accidenti”, come se avesse origliato la parola dagli adulti.
Paolo si affacciò nel corridoio e rimase immobile. Lì c’era suo nipote, Tommaso.
Piccolo, con i capelli arruffati e ancora in pigiama a righe, cercava con aria seria di camminare lungo il corridoio… dentro un paio di vecchi scarponi di cuoio che se ne stavano solitari accanto alla porta. Gli scarponi che Tommaso chiamava “quelli di papà”. Anche se papà, Matteo, non c’era più da un po’ — era partito per un lungo viaggio di lavoro di sei mesi, lasciando la famiglia in attesa.
“Tommaso, che stai facendo?” chiese piano Paolo, cercando di non spezzare quel fragile momento.
Il bambino non si voltò, concentrato sui suoi piedi.
“Voglio provare a essere grande,” rispose, facendo un passo incerto. Uno scarpone scivolò via, e Tommaso sbuffò, chinandosi per rimetterlo a posto.
Paolo si sedette sulla panca vicino al muro, sentendo il cuore stringersi di tenerezza. Sapeva: in quel momento, non doveva intervenire. A volte, i bambini hanno bisogno di indossare qualcosa che non è loro, per capire chi sono.
“Pensi che essere grandi sia facile?” domandò dopo un attimo, cercando di non distrarre il nipote.
Tommaso annuì, senza staccare gli occhi dagli scarponi.
“Beh, tu e papà sapete tutto. E nessuno vi dice cosa fare.”
Paolo non poté fare a meno di sorridere, ma in quel sorriso c’era un po’ di amarezza. Si ricordò di quando, da piccolo, aveva messo gli stivali di suo padre — pesanti, enormi, con la pelle consumata. Allora gli era sembrato che indossarli lo avrebbe reso subito più forte, più alto, quasi invincibile. Ma dopo pochi passi aveva capito quanto fossero scomodi: le dita ballavano, il tallone scivolava, ogni passo era una lotta.
“Sai,” cominciò Paolo, “con questi scarponi tuo papà è andato al suo primo lavoro. Sono vecchi, ma li ha tenuti. Diceva che la sua vita da grande era iniziata lì.”
Tommaso si immobilizzò, fissando gli scarponi. I suoi occhi, troppo seri per un bambino di sette anni, brillavano di curiosità e di qualcos’altro — come se cercasse di cogliere in quei giganti di cuoio consumato i segni del destino di suo padre.
“Voglio lo stesso camminarci dentro,” disse con ostinazione. “Per cominciare anch’io.”
“Ma non troppo a lungo,” rispose delicato Paolo. “Poi torna alle tue ciabatte. Avrai tutto il tempo per diventare grande.”
Tommaso annuì e, barcollando, fece altri due passi. La sua faccia era tesa, ogni passo — una piccola impresa. Nei suoi movimenti c’era una determinazione, come se non stesse camminando lungo un corridoio, ma su un ponte invisibile verso il futuro.
Paolo osservava il nipote, e nel petto sentiva espandersi una calda, profonda emozione. Essere grandi non è questione di scarponi, né di abiti eleganti o di sapere tutte le risposte. È alzarsi la mattina anche quando tutto dentro urla per rimanere a letto. È perdonare anche quando nessuno lo chiede. È proteggere chi si ama, anche se il cuore trema di paura.
Ma tutto inizia proprio così — con un bambino che infila gli enormi scarponi di suo padre e fa il primo, goffo passo verso un mondo che, per ora, è ancora troppo grande per lui.