Da piccola, ho sempre saputo che per mia madre ero la seconda opzione. Non l’ultima, no. Semplicemente la seconda, dietro a qualcuno di più degno, di più capace, di più “perfetto”. Dietro a mia sorella maggiore, Benedetta. E va bene, in ogni famiglia i figli sono diversi. Ma mia madre aveva trasformato le nostre differenze in uno spettacolo in cui io ero l’eterna perdente e Benedetta la ragazza d’oro sul podio.
Per quanto mi ricordi, ho sempre cercato di dimostrarle che anch’io valevo qualcosa. Che non ero da meno. Che meritavo il suo orgoglio, il suo amore, il suo sguardo affettuoso. Ma ogni mio passo avanti svaniva nel nulla. Portavo a casa premi dalle gare scolastiche—silenzio. Entravo all’università con una borsa di studio—”Benedetta si è laureata senza nemmeno un sei, ecco un vero risultato”. Trovavo lavoro dopo la laurea—”Benedetta è già sposata, e tu ancora a correre dietro ai documenti”. Lei aveva un figlio, io un mutuo. Lei una famiglia, io “ambizioni inutili”. Ogni mio “ce l’ho fatta” si spezzava contro il suo “e quindi?”
Faceva male. Sempre. Come se dovessi giustificarmi continuamente per quello che ero. Come se i miei sforzi non bastassero, se non ero come lei—Benedetta. Come se il mio amore non fosse sufficiente perché mia madre mi vedesse, finalmente, non come “l’altra figlia”, ma semplicemente come sua figlia. Ma ho resistito. Ho resistito e continuato a sperare che, un giorno, mi avrebbe apprezzata.
Lo scorso autunno, mia madre è andata in pensione. Con pochi soldi e la salute traballante, mi sono fatta carico delle bollette, delle medicine, della spesa. Ho aiutato come potevo, anche se a malapena riuscivo a tirare avanti. Un mese fa, ho rifatto completamente il suo appartamento: messo a posto l’impianto elettrico, tappezzato le pareti, comprato una cucina nuova. Ho spento tutti i miei risparmi, solo perché stesse bene.
Tre giorni dopo, era il suo compleanno. Non potevo permettermi un regalo—non avevo un euro rimasto. Ma sono andata comunque, con un mazzo di fiori, una torta e parole sincere. L’ho abbracciata, baciata sulla guancia, auguratole salute. E lei… si è alzata davanti a tutti e ha chiesto ad alta voce:
“Dov’è il regalo? Non lo sai che al compleanno si deve portare qualcosa?”
La stanza è diventata di ghiccio. Non mi sono mai sentita così umiliata. Non sapevo cosa dire. E solo ora ho capito: questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Basta. Non mi sprecherò più per lei, come un fiore che si stira verso un sole che non lo scalda. Non cercherò più di conquistare un amore che, forse, non era mai destinato a me.
Non sono arrabbiata. Sono stanca. E ora so con certezza: da oggi vivrò per me stessa. Non per gli elogi di mia madre, non per il confronto con la “sorella perfetta”, non per la sua approvazione. I miei soldi, le mie energie, il mio tempo—non li sprecherò più per chi in me vede solo “quella che non è Benedetta”.
A volte, per imparare ad amarsi, bisogna smettere di dimostrarlo agli altri. Anche a chi ti ha dato la vita.