È successo a febbraio, in una di quelle serate lunghe in cui l’inverno sembra voler prolungare l’oscurità per mettere alla prova la resistenza umana. Mio marito era uscito per il turno di notte, e io e mio figlio Daniele, di due anni, eravamo soli nell’appartamento affittato alla periferia di Firenze. Come sempre, cercavo di metterlo a dormire, ma senza successo. Il piccolino si agitava, si girava nel letto, e a un certo punto ho rinunciato, decidendo di lasciargli ancora un po’ di tempo per giocare, mentre io andavo in cucina a farmi una tazza di tè.
Non avevo nemmeno toccato lo sportello della credenza che, dall’altra parte della parete, sentii un urlo e una tosse secca e roca. Mi si gelò il sangue. Mi lanciai nella stanza — Daniele era in piedi in mezzo alla camera, piangeva disperato, soffocato dai colpi di tosse.
“Dove ti fa male? Dani, amore, cos’hai?” Mi inginocchiai davanti a lui, afferrandolo per le spalle, cercando disperatamente un indizio su cosa stesse succedendo.
Lui continuava a piangere e tossire, tossire, finché non mi resi conto: aveva ingoiato qualcosa. Provai a aprirgli la bocca, ma lui, stringendola con le manine, la teneva sempre più chiusa, e i suoi occhi erano pieni di terrore.
Avevo solo vent’anni. Una ragazza che fino a ieri non sapeva nemmeno cucinare la pasta al pomodoro. E ora, tra le braccia, il mio bambino stava morendo. Cominciava già a diventare blu, boccheggiando per l’aria. Corsi al telefono. Le mie dita tremavano come foglie al vento mentre componevo il “118”. E… silenzio. Niente segnale. Niente. Solo un vuoto assoluto. Riprovai, riattaccai, richiamai ancora — il telefono taceva.
Non avevamo cellulari. Ci eravamo appena sposati, in affitto in quel mini appartamento, a tirare avanti con pochi euro. Strisciai Daniele al petto e scoppiai in lacrime, dimenticando tutto. Nella mia testa c’era solo un grido: “Signore, ti prego, aiutami!” Non sapevo pregare, non conoscevo le parole. Ma in quel momento parlavo con Dio. Come con un padre. Lo supplicavo. Lo imploravo.
E all’improvviso… suonarono alla porta.
Corsi ad aprire, sapendo che non poteva essere mio marito. Ma dietro la porta c’era un uomo sconosciuto, sui trentacinque anni. Alto, stanco, con degli occhi buoni.
“Buonasera…” cominciò, ma vedendo la mia faccia, si interruppe. “Che succede?”
Non so perché, ma subito gli raccontai tutto. Dall’inizio alla fine. Lui ascoltò per meno di un minuto, poi mi scostò delicatamente ed entrò in casa.
Lo seguii come in un sogno. Si inginocchiò davanti a Daniele, gli sussurrò qualcosa, e… come per miracolo, mio figlio si calmò. Pochi secondi dopo, l’uomo si girò verso di me e, aprendo la mano, mi mostrò una piccola perlina nera.
“Ecco cosa impediva a vostro figlio di respirare,” disse con calma. “L’aveva ingoiata, ma era bloccata poco in profondità. Per fortuna mi sono trovato qui.”
E solo allora ricordai: sì, pochi giorni prima avevo rotto una collana di perle false. Credevo di aver raccolto tutto… ma una, la più piccola, mi era sfuggita.
Quell’uomo si chiamava Lorenzo. Era un pediatra. Stava tornando dal turno in ospedale, e proprio davanti al nostro palazzo la sua macchina si era spenta all’improvviso. Senza sapere cosa fare, aveva deciso di chiedere un telefono — non c’era il citofono, così aveva bussato alla prima porta. La nostra.
I telefoni, come scoprimmo dopo, non funzionavano in tutto il palazzo — c’era stato un guasto alla linea. Ma Lorenzo, dopo la tazza di tè con cui riuscii a convincerlo a restare, scese in cortile e… la macchina ripartì al primo colpo. Come se niente fosse.
Da allora mi chiedo spesso: è stato un caso? O davvero un aiuto dall’alto?
Ora vado in chiesa. Accendo una candela per la salute di Lorenzo. E quando guardo Daniele, ormai grande, sorridere dalle foto di scuola, capisco: Dio ascolta davvero. A volte — anche senza preghiere.