La strada che non abbiamo percorso insieme
Giulia e Marcello Rinaldi sognavano una cosa sola: un’automobile. Non un semplice oggetto con le ruote, ma un biglietto per la libertà che si erano immaginati dal giorno del loro matrimonio. Quasi trent’anni di lavoro, della casa in campagna, lavoretti stagionali, rinunce alle piccole cose—tutto per un unico sogno: comprare un’auto e partire insieme in viaggio. Senza orari, senza fretta, solo loro e la strada.
E ci riuscirono. Una «Fiat 500X» argentata apparve nel vecchio garage accanto alla fedele «Panda» che li aveva accompagnati per decenni. Marcello girava intorno alla macchina come un bambino con un regalo. Accarezzava il cofano, sbirciava all’interno, mentre Giulia già immaginava come avrebbero corso su ponti mai visti, dormito in campeggi, bevuto caffè alle stazioni di servizio, ammirato i tramonti in città sconosciute…
Il piano era pronto da tempo. Tutto era stato organizzato nei minimi dettagli: il percorso, i pernottamenti, i punti ristoro, la lista delle cose necessarie. Marcello si occupava della guida e della parte tecnica. Aveva studiato la mappa, segnato le coordinate dei campeggi e delle stazioni di servizio, calcolato le distanze, stampato un itinerario con gli orari delle soste. Giulia, invece, si occupava dell’atmosfera, del cibo e delle emozioni. Sul suo quaderno c’era ogni trattoria con piatti tipici, ogni attrazione, ogni angolo perfetto per una foto. Non lo avevano detto a nessuno—era la loro storia, intima e preziosa.
La strada stava finendo. Mancava solo sistemare gli ultimi dettagli alla casa in campagna. Era settembre, un vento fresco annunciava l’autunno. Si preparavano a tornare in città—venti chilometri fino all’appartamento. Il sole calava all’orizzonte, Giulia guardava dal finestrino, mentre Marcello canticchiava sottovoce. Tutto sembrava perfetto.
Poi, in un attimo, tutto si spezzò.
Lui frenò di colpo, afferrò il volante, il corpo si protese in avanti—e si bloccò. L’auto si fermò in mezzo alla strada. Giulia fu sbattuta contro la cintura, non capì subito cosa stesse succedendo. Poi—urla, panico. Marcello non rispondeva. Semplicemente cadde in avanti, la testa sul volante.
Giulia chiamò l’ambulanza, cercò di rianimarlo. I medici arrivarono in fretta, ma… Non respirava già più.
Un infarto. Fulmineo. La cintura odorava ancora del suo profumo, e lui non c’era più.
Seguirono i formalità: polizia, la figlia con il marito, lacrime, domande. Ma Giulia non sentiva nulla. Era ancora in macchina, nello stesso posto dove aveva sognato poco prima. Guardò mentre lo portavano via. Non versò una lacrima. Era vuota.
Passarono nove giorni. Poi quaranta. Poi tre mesi.
La figlia veniva a trovarla, portava da mangiare, puliva. Provava a farle riprendere il dialogo. Invano. Giulia sembrava essersi rinchiusa in sé stessa. Si muoveva per la casa meccanicamente, cucinava minestre, ma la sua anima era congelata.
Un giorno, la figlia, quasi per caso, le chiese:
«Mamma, quella macchina argentata… di chi è?»
«Marcello l’aveva…» iniziò Giulia, e all’improvviso un’ondata di ricordi la travolse. Le immagini le passarono davanti agli occhi: lui che sceglieva il colore, che sorrideva, che segnava le stazioni di servizio… E allora pianse. Per la prima volta davvero. Non in silenzio, non trattenendosi—ma con un dolore straziante. Tanto che la figlia si spaventò. Giulia singhiozzò tutto il giorno e quasi tutta la notte. Poi si addormentò. E al risveglio capì: doveva vivere. Per lui.
In primavera tornò alla casa in campagna. Aprì lo zaino di Marcello, ancora intatto, e trovò una cartella blu. Il loro itinerario. La sua grafia. Le sue annotazioni: «qui berremo il caffè», «qui di sicuro vorrai una foto».
Chiuse la cartella di colpo. Le lacrime tornarono, la rabbia ribollì. «Che razza di sogno, dannazione?!» Avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto buttarla via. Ma non ce la fece. La mise nella borsa.
Ora andava in campagna col treno. Il genero si era preso la macchina—prometteva di accompagnarla, ma poi si era fatto prendere dagli impegni. Lei non se la prendeva. Pazienza. Ormai non le serviva più.
Ma la sera apriva la cartella. All’inizio—di nascosto. Poi—regolarmente. Leggeva, ricordava. Sembrava che lui fosse ancora lì. Le sussurrava: «Andiamo, Giuly».
E una sera si decise. Tornata in città, si iscrisse a un corso. Non uno qualunque—di guida sicura. L’istruttore, un ragazzo di venticinque anni, all’inizio sorrise. Ma Giulia era determinata. Imparò, si esercitò, stringeva il volante con tanta forza che sembrava aggrapparsi alla vita stessa.
Prese la patente. Quella vera. Con il bollino. Con orgoglio.
Poi andò dalla figlia. Calma. Sicura.
«Sara, scendi un attimo. Con le chiavi. E i documenti.»
Li prese, si avvicinò alla macchina. L’accarezzò. Si sedette. Accese il motore.
E poi—partì. Senza dire una parola. Tre giorni dopo era già all’estero—nel Paese da cui iniziava il loro viaggio.
E poi ancora avanti.
Alla figlia avrebbe parlato dopo. Avrebbe capito. Era il loro sogno, suo e di Marcello. E ora era la sua strada. La strada senza di lui. Ma comunque insieme.