Occhi Azzurri dei Sogni

Luca non conosceva le carezze di una madre né la voce di un padre. Non ricordava altro che corridoi grigi, tutti uguali, e il suono ovattato dei passi delle educatrici. Era come se non fosse nato da una donna, ma direttamente tra le mura dell’orfanotrofio di Perugia. Gli altri avevano brandelli di memoria – una culla, un profumo, mani calde. Lui aveva solo il freddo dei giocattoli di plastica e il gorgoglio dell’acqua nel lavandino.

Ma di notte, tutto era diverso.

Nei sogni, una donna veniva da lui. Si sedeva accanto, lo abbracciava, gli accarezzava i capelli e sussurrava parole dolci. Aveva gli occhi come il cielo di primavera dopo un temporale – azzurri, limpidi, infinitamente familiari. Si svegliava e rimaneva immobile a guardare il soffitto, temendo di muoversi, di disperdere il calore di quel sogno. Per tutto il giorno, poi, era silenzioso, ma meno cupo del solito – come se un pezzetto di quella tenerezza rimanesse con lui.

Nella realtà, però, era diverso. Ogni giorno all’orfanotrofio arrivavano «ospiti» – potenziali genitori adottivi. I bambini si vestivano bene, recitavano poesie, fissavano sorrisi forzati. Lottavano per attirare l’attenzione, si spintonavano, si interrompevano. E Luca? Lui stava in disparte. Non si esibiva, non sorrideva, non mendiva sguardi – aspettava. Non chiunque. Proprio lei, la donna con gli occhi dei suoi sogni.

“Luca, dai, sorridi, ti prego!” lo supplicava un’educatrice.

Ma lui scuoteva solo la testa, ostinato, e voltava lo sguardo. Sapeva che non sarebbe andato con nessun altro. L’avrebbe riconosciuta – quella che gli appariva in sogno.

Un giorno, una delegazione arrivò all’orfanotrofio – per l’anniversario dell’istituto. Telecamere, fotografi, una folla di estranei. Luca, come sempre, si sedette in un angolo, lontano dal trambusto. Ma il suo sguardo si fermò su una donna. Alta, slanciata, con i capelli corti e quel sorriso – così familiare da farlo rabbrividere. E gli occhi… quelli sì, erano i suoi! Il respiro gli si bloccò.

E all’improvviso – lei lo guardò dritto negli occhi. I loro sguardi si incrociarono, e per la prima volta in vita sua… sorrise.

Un’educatrice lasciò cadere la tazza di tè. In sei anni all’orfanotrofio, Luca non aveva mai sorriso. E ora, improvvisamente, spontaneo, luminoso, vero.

La donna si avvicinò. Si sedette accanto a lui. Lui non distolse lo sguardo. Ascoltava, rideva, faceva domande. Senza paura. Con lei era come nei suoi sogni – facile, sicuro, reale.

Poi cominciò a tornare. Senza telecamere, senza delegazioni. Portava libri, passeggiavano nel cortile, parlavano delle nuvole e delle città che lei aveva visitato. E poi sparì. Per un mese intero. Luca non chiese alle educatrici – aveva paura di sentire che non sarebbe tornata.

Ma tornò. Arrivò con una giacca semplice, senza trucco. E disse:

“Luca, sono venuta a portarti a casa. Sarai mio figlio.”

Non ci credeva. Pensava di sognare. Si pizzicò – faceva male. Dunque era vero. Non disse una parola, la stringe soltanto. A lungo. In silenzio. Come solo lui sapeva fare.

Più tardi, gli presentò il marito. Era un uomo semplice, di buon cuore, e accettò il bambino come se fosse suo. Insieme, ricominciarono da zero. La prima torta nella nuova casa. La prima gita nel bosco. La prima sera in cui non dovette addormentarsi al suono di passi estranei nel corridoio.

Luca non tornò mai più all’orfanotrofio. Solo a volte, passando davanti allo specchio, si accorgeva che nei suoi occhi brillava la stessa luce – azzurra, calda, come quella di lei. La sua nuova madre. Quella vera.

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