La finestra dove nessuno aspetta più
Non capii subito che qualcosa non andava, ma qualcosa dentro di me lo suggeriva: in questa storia c’era qualcosa di storto. Come una stanza leggermente inclinata, una sedia malferma, e tu che stai per perdere l’equilibrio. Nulla di evidente, solo una sottile crepa nella realtà. Me ne accorsi in primavera, guardando la finestra di fronte. Una piccola cucina al quinto piano, dove la luce si accendeva sempre alle otto in punto. Lei usciva con una tazza in mano, a piedi nudi, con un maglione largo, come se il freddo non la toccasse, perché la terra sotto i suoi piedi era la sua casa. Si sedeva al tavolo, abbracciava le ginocchia e fissava a lungo lo schermo del portatile. A volte rideva, lasciando andare indietro la testa, altre volte asciugava le lacrime con la manica, senza mai staccare gli occhi dallo schermo, come se il dolore fosse diventato parte di lei, naturale come respirare. Nei suoi gesti non c’era finzione, solo vita. Quella vera.
Non era bella secondo gli standard patinati, ma aveva qualcosa di irresistibile. Qualcosa che mi faceva aspettare quelle sere. Come si aspetta il meteo, non per l’informazione, ma per il tono di voce di chi lo legge. Vivevo solo. Erano passati due anni dal divorzio, e il silenzio in casa era diventato quasi tangibile—si infilava nel letto, nel tè, nella tastiera che nessuno, tranne me, toccava. Il cibo? Sempre d’asporto. Le relazioni? Messaggi senza incontri. Mia madre chiamava ogni domenica e diceva: “Hai quarantatré anni, figlio mio, non puoi vivere così.” Io annuivo, sorridevo al telefono e sfioravo lo schermo, solo per farla finita.
In primavera guardava lo schermo. D’estate leggeva. In autunno scriveva. Sempre allo stesso tavolo. Con lo stesso maglione. E il gatto, raggomitolato sul davanzale, come un altro rituale, insieme alle tende, alla tazza, alla luce soffusa. In nove mesi, non mi aveva mai guardato. Neppure una volta. Come se sapesse che la osservavo. Ma non dava segni. Io aspettavo. Ogni sera, sperando che un giorno si voltasse. Non per salutare. Solo per dire, con uno sguardo, che anche lei mi vedeva.
Poi, a gennaio, la luce non si accese più.
Aspettai. Una sera. Due. Una settimana. Niente. Le tende erano chiuse. Il gatto sparito. Tutto svanito, come se qualcuno avesse strappato una pagina nel bel mezzo di una frase. Non sapevo cosa fare. Non avevo diritti—ma non potevo arrendermi così. Il tredicesimo giorno, andai. Attraversai il cortile. Salii le scale. Bussai.
Mi aprì un’altra. Giovane. Sorpresa. Con le cuffie nelle orecchie.
“Scusi… qui viveva una donna… sulla trentina… con un gatto… capelli chiari…”
“Ah, Luisa?” Togliendosi una cuffia. “È morta. A dicembre. Era malata. In ospedale. Il gatto, credo, l’abbia preso qualcuno. Io sono qui da dicembre.”
Ringraziai. Me ne andai. Lentamente. Come se con ogni passo il silenzio diventasse più pesante. Nel cortile era tutto spoglio, come se gli alberi lo sapessero. Tornai a casa. Mi sedetti sul davanzale. E solo allora mi accorsi che le mani mi tremavano. Perché in quella finestra non c’era più niente da aspettare.
Ora, di sera, si accendevano le lucine natalizie. Calde. Allegre. La luce ballava sulle pareti. Un’altra donna, altre tazze, un’altra vita. Chitarre. Risate. Voci sconosciute. E io continuavo ad aspettare, chissà, forse sarebbe riapparsa. Seduta. Con le ginocchia strette al petto. E, magari, una volta sola… avrebbe guardato dalla mia parte.
Non lo fece.
E in primavera, per la prima volta, accesi la lampada da scrivania. Non perché facesse buio. Ma perché, forse, qualcuno stava guardando dall’altra parte. Mi sedetti. Con un libro. Una tazza. Un maglione vecchio, che sapeva di tempo e di silenzio.
Solo per tenere accesa la luce.