Quando l’aria opprime

L’aria pesava

Fin dal mattino, nell’appartamento non c’era solo silenzio—era un silenzio teso, denso, come prima di un temporale. Non era la quiete, ma un’assenza di suono inquietante, che faceva tremare le dita. Persino il bollitore fischiava con cautela, quasi temesse di spezzare quel fragile confine oltre il quale iniziava un’altra realtà. Giulia era in cucina—a piedi nudi, coi capelli ancora umidi, in una vecchia maglietta grigia, e non riusciva a ricordare perché si fosse svegliata alle sette. Non aveva impostato la sveglia. Aveva solo aperto gli occhi—e capito: qualcosa era cambiato.

Sul tavolo c’era un biglietto. Senza busta, tra una tazza di infuso di rosa canina e un pacchetto di cracker. Come se qualcuno l’avesse lasciato lì di passaggio. La scrittura le era dolorosamente familiare—lineare, precisa, senza svolazzi. Così scriveva sempre Davide nei biglietti per lei: sobrio, ma con un calore nascosto in ogni lettera.

*«Giulia. Scusami. Non ce l’ho fatta più. Non cercarmi. — D.»*

Non lo toccò. Lo osservò soltanto. Minuti. Forse un’ora. Come se quel frammento di carta fosse una soglia, e varcarla avrebbe fatto crollare tutto. Poi accese la radio—il presentatore parlava allegramente del traffico sul Grande Raccordo Anulare, come se niente fosse. Come se il mondo non avesse perso un uomo. Quello che respirava accanto a lei ogni mattina.

Davide era uscito di notte. Lo capiva—non aveva sentito passi, né la porta chiudersi, né la serratura cigolare. Solo il vuoto nell’attaccapanni. La sua sciarpa—grigia, ruvida—era ancora lì. Non aveva nemmeno preso l’ombrello. Quello col manico di legno e il dettaglio rosso. Giulia lo fissò a lungo, come se potesse rispondere alle domande che non riusciva a formulare.

Cercò di ricordare l’ultima volta che avevano parlato davvero. Non della spazzatura o della lista della spesa, ma—di cuore. Forse ad aprile, su una panchina vicino al lago. Davide aveva detto piano: *«Con te è difficile respirare.»* Lei aveva scherzato. Lui, forse, stava già salutando.

A pranzo, Giulia rivide vecchie foto. Insieme sull’autobus, in montagna, in campagna. Lì—la sua mano sulla sua spalla. Lì—la stringeva per la vita e sorrideva. Prima la riscaldavano. Ora dentro c’era solo un’eco fredda e informe. Non piangeva nemmeno. E questo era la cosa più spaventosa. Come se i sentimenti si fossero consumati, lasciando solo un vuoto grigio e appiccicoso.

La sera, chiamò Luca, un amico comune. *«Tutto bene?»* l’uomo chiese. Giulia rispose: *«Sì. Solo un po’ stanca.»* Mentì senza esitazione. Senza strappi. Come se avesse ripetuto quella frase per tutta la vita. Dopo la chiamata, restò al buio, ad ascoltare il rubinetto che gocciolava. Ogni goccia—un conto alla rovescia.

Due giorni dopo, andò alla Stazione Termini. Solo per guardare la gente. Quelli che partivano, tornavano, si affrettavano, salutavano, abbracciavano, piangevano, ridevano. Tutti vivi. Tutti di fretta. E dentro di lei—silenzio, teso come un filo. Davide odiava le stazioni. Diceva: *«Ti ricordano troppo che tutto è temporaneo.»* Non amava neanche passarci vicino. Ma proprio lì, sul binario, Giulia capì—non era solo uscito di casa. Era uscito dal loro «noi». E forse non c’era ritorno.

Al terzo giorno, prese l’ombrello. Lo mise vicino alla porta. Poi lo rimise a posto. Poi lo riportò. Come se quell’oggetto fosse un’ancora. Un segno che qualcosa poteva ancora restare. O—tornare.

Passarono due settimane. Il biglietto era ancora lì. A volte notava la polvere—e la soffiava via, come se temesse di cancellare le sue ultime parole. Altre volte le sembrava che la carta si scaldasse quando si avvicinava. Come se nell’inchiostro pulsasse qualcosa di vivo—un resto d’amore, di speranza, o di ciò che non aveva udito allora.

Poi, una mattina—un colpo alla porta. Forte. Il postino. Un giorno normale, ma le mani tremavano. Sul modulo di consegna—mittente: D. Pellegrini.

Dentro—una lettera. E un biglietto. Un treno regionale per Bracciano. La carta era spiegazzata, come se fosse stata in tasca a lungo. In fondo—una firma:

*«Se puoi—vieni. Se non vuoi—non ti trattengo. Dimmi solo. Non so fare altrimenti. Ma so ancora aspettare.»*

Giulia si sedette nel corridoio, la schiena contro la porta. Il pavimento era gelido. Ed era il freddo più bello della sua vita. Perché era reale. Perché il dolore—significava che era ancora viva. Non pianse. Solo restò seduta, gli occhi chiusi. Qualcosa si strinse nel petto. E quella stretta non era disperazione—era una possibilità.

A volte l’amore non se ne va. Si nasconde. Nelle cose vecchie, nei ricordi dei profumi, nell’ombrello vicino alla porta, in una grafia conosciuta. E aspetta che tu riesca di nuovo a respirare. Senza paura. Senza rabbia. Solo—respirare.

Giulia scese alla fermata finale. Lui aspettava. Senza fiori. Senza scuse. Ma con occhi in cui c’era solo una cosa—luce.

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