Dove ti sei nascosto?

Dove ti sei nascosta

All’inizio sparirono i guanti. Poi il mazzo di chiavi. Infine, la vecchia sciarpa. Poteva essere semplice distrazione, la stanchezza, l’età. Ma quando scomparve anche la scatolina con i fili, sempre posata sulla cassettiera, Anna Bellini non poté più far finta di niente. Si sedette sulla sedia, respirando a fondo. Le mani le tremavano, non per paura, ma per rabbia. Il suo piccolo mondo ordinato si sgretolava, come se qualcuno invisibile ne strappasse via i fili, uno a uno.

«Se è così, giochiamo pure», disse a voce alta, e nella sua voce non c’era inquietudine, ma una sfida tagliente come una lama.

L’appartamento rimase in silenzio. Solo l’orologio a muro ticchettava dietro la parete, segnando il tempo con ostinata precisione. Anna viveva da sola da nove anni. Suo marito se n’era andato all’improvviso, in salotto, con una tazza di tè a metà e una battuta rimasta sulle labbra. Dopo la sua morte, non aveva cambiato nulla: lo stesso divano consunto, la stessa sedia scricchiolante, persino la sua tazza preferita, con la scritta sbiadita «Miglior Nonno».

La figlia la visitava due volte l’anno. Portava generi alimentari, brontolava perché la madre non rispondeva al telefono, e se ne andava in fretta. Le sue parole erano spezzate, come schiacciate tra lavoro, famiglia e mille preoccupazioni. Anna non si offendeva. Capiva: sua figlia aveva la sua vita, i suoi debiti, i figli, i progetti. Accettava i sacchetti di pasta e medicine, sorrideva, abbracciava goffamente, poi restava a lungo nell’ingresso vuoto, fissando la porta chiusa, finché il silenzio non diventava troppo pesante.

Ma un mese prima, in casa era iniziato qualcosa di strano. Non subito, non violentemente. Come un sarto che modifica un tessuto, lentamente. Prima, un odore: sottile, come di erbe secche bruciate in un angolo, come nella casa di campagna della nonna. Poi le correnti d’aria. Le tende oscillavano anche a finestra chiusa. E le ombre. Scivolavano sui muri, senza seguire la luce, come se qualcuno camminasse silenziosamente, senza lasciare tracce. La casa respirava con un ritmo diverso, non più suo.

Anna tacque. Passava più tempo alla finestra, con le gambe raccolte e una tazza fredda tra le mani, osservando la strada innevata. Guardava i fiocchi cadere, ricordando. Suo padre che le insegnava ad andare in bicicletta, tenendola per la sella finché non trovava l’equilibrio. Gli anni Novanta, quando lei e il marito si scaldavano vicino alla stufa, ridendo mentre cercavano di tostare il pane sul coperchio rovente. La prima televisione comprata insieme, e le notti a litigare su quale canale guardare, prima di addormentarsi stretti l’uno all’altro.

Poi le cose iniziarono a sparire. Piccole cose all’inizio: un bottone, un fazzoletto, una spilla. Poi oggetti più importanti: gli occhiali, il taccuino. Tutto svaniva senza motivo, come se qualcuno rubasse pezzi della sua vita, silenziosamente, con cura.

«Dove ti sei nascosta?», chiese una volta al vuoto. La sua voce risuonò più forte del previsto, come se le mura l’avessero restituita.

E da cucina, una risposta: «Qui».

Era una voce piccola, quasi infantile, non spaventosa. Né malevola. Solo estranea. E per questo, terribilmente reale.

Non corse subito in cucina. Si preparò un tè, aspettò. Osservò i cerchi nella tazza, come se potessero darle una risposta. Poi si alzò e entrò lentamente. La porta cigolò, esitando con lei. Tutto era al suo posto: il tavolo coperto dalla tovaglia cerata, le tende, le pentole sullo scaffale. Ma l’aria era diversa. Il silenzio non era vuoto, ma vibrante, come un respiro trattenuto. Una presenza, quasi tangibile, ma calda, un tocco leggero.

«Chi sei?», domandò con fermezza, senza paura, come se sapesse che nessun male le sarebbe stato fatto.

Nessuna risposta. Solo un lieve scricchiolio del pavimento, come un passo interrotto.

Il giorno dopo, sparì il quaderno dei vecchi ricetti e dei numeri di telefono ormai inutili. La sera, tornando dal balcone, trovò un biglietto sul tavolo. Senza indirizzo, senza firma. Solo due parole, scritte a matita: «Sono qui».

Da quel giorno, vissero insieme. L’altra, nell’ombra, negli angoli, nel tremolio delle tende. Anna, alla luce del giorno, nel rumore del bollitore, nel tintinnio delle posse. Non parlavano. Ma un giorno, aprendo l’armadio, trovò tutte le cose scomparse. Ordinate, pulite, come se qualcuno le avesse raccolte con cura.

E allora capì. Non era un’intrusa. Era lei. Quella parte di sé che aveva dimenticato, repressa, quando il marito era morto, quando la figlia se n’era andata, quando i giorni erano diventati tutti uguali. Quella che un tempo cantava con la chitarra, ballava ascoltando la radio, scriveva poesie su foglietti nascosti in un cassetto. Quella che era svanita poco a poco, tra i «più tardi» e i «non adesso».

Anna prese la sciarpa, se la mise sulle spalle. Profumava di menta e di tempo passato. Uscì sul balcone. Accese una sigaretta — la prima dopo dieci anni. Il fumo saliva nel cielo, portando via il peso, la solitudine, la rigidità di una vita troppo controllata.

Sotto di lei, la neve cadeva. Leggera, quasi impalpabile. Tra i suoi riflessi brillavano le luci della città, come se il mondo le sussurrasse: «Ti aspettavo».

Dove ti sei nascosta?, pensò. Ecco. Ti ho trovata.

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