Dove ti nascondi?

**Dove ti sei nascosta**

All’inizio sparì un guanto. Poi il mazzo di chiavi. Infine, la vecchia sciarpa. Avrebbe potuto attribuirli all’età, alla distrazione, alla stanchezza. Ma quando, nel giro di un mese, scomparve anche la scatola dei fili che stava sempre sulla cassettiera, Giovanna Rossi non ce la fece più. Cadde sulla sedia, un respiro pesante. Le mani tremavano, non per paura, ma per rabbia. Il suo piccolo mondo ordinato si stava sgretolando, come se una presenza invisibile ne strappasse via i fili, uno dopo l’altro.

«Bene, se è così, giochiamo», disse ad alta voce, e nella sua voce non c’era ansia, ma sfida, affilata come una lama.

L’appartamento taceva. Solo dietro il muro, un vecchio orologio a pendolo segnava il tempo con ostinata precisione. Giovanna viveva sola da nove anni. Suo marito se n’era andato all’improvviso, in salotto, con una tazza di tè a metà e una battuta incompiuta sulle labbra. Dopo la sua morte, non aveva cambiato niente: lo stesso divano consunto, la stessa sedia cigolante, perfino la sua tazza preferita, quella con la scritta sbiadita *«Miglior nonno»*.

La figlia la visitava due volte l’anno. Portava la spesa, brontolava perché non rispondeva al telefono, e se ne andava in fretta. Le sue parole erano frammentarie, come se fossero state estorte fra impegni, famiglia, preoccupazioni infinite. Giovanna non se la prendeva. Capiva: sua figlia aveva una sua vita, il lavoro, i figli, i mutui. Accettava le buste piene di pasta e medicine, sorrideva, l’abbracciava goffamente, l’accompagnava alla porta e restava a lungo nel corridoio vuoto, fissando la porta chiusa, finché il silenzio non diventava insopportabile.

Ma un mese prima, in casa era iniziato qualcosa di strano. Non subito, non bruscamente. Era come se qualcuno rimaneggiasse il suo mondo con cura, come un sarto che aggiusta i bordi di un tessuto. Prima, era arrivato un odore – sottile, come di erbe essiccate che bruciavano piano in un angolo, come nella casa di campagna della nonna. Poi, le correnti d’aria. Le tende tremavano anche se la finestra era chiusa. E le ombre. Scivolavano sui muri senza seguire la luce, come se qualcuno di invisibile si muovesse per la stanza, senza lasciare tracce. La casa respirava con un ritmo estraneo, non più il suo.

Giovanna taceva. Si sedeva solo più spesso alla finestra, con le gambe raccolte e una tazza di tè freddo tra le mani, osservando la strada imbiancata oltre il vetro. Guardava la neve cadere, coprire il vecchio cortile dove un tempo giocavano i bambini, e ricordava. Suo padre che le insegnava ad andare in bicicletta, tenendola per la sella finché non trovava l’equilibrio. Gli anni Novanta, quando lei e suo marito si scaldavano attorno a una stufa durante le interminabili interruzioni di corrente, ridendo mentre cercavano di friggere il pane sul coperchio rovente. La prima televisione, comprata a stento, e le discussioni infinite su quale canale guardare, finché non crollavano addormentati, stretti l’uno all’altra.

Poi, le cose cominciarono a sparire. Prima piccole: un bottone, un fazzoletto, una spilla antica. Poi più importanti: la sciarpa preferita, gli occhiali, l’agenda. Ogni volta, senza motivo, senza spiegazione. Come se qualcuno rubasse pezzi della sua vita, con delicatezza, ma implacabile.

«Dove ti sei nascosta?», chiese un giorno al vuoto. La sua voce fu più forte del previsto, come se l’eco avesse rimbalzato sulle pareti e si fosse fermata a mezz’aria.

E allora, dalla cucina, arrivò una risposta: «Qui».

La voce era sottile, quasi infantile, ma non spaventosa. Non maligna. Solo estranea. E per questo, profondamente reale.

Non corse subito in cucina. Si preparò un tè, aspettò. Osservò i cerchi nella tazza, come se potesse leggervi una risposta. Poi si alzò, raddrizzò le spalle ed entrò lentamente. La porta scricchiolò, quasi esitando con lei. Tutto era al suo posto: il tavolo coperto dalla tovaglia di plastica, le tende, le pentole sulla mensola. Ma l’aria era diversa. La quiete non era vuota, ma viva, come se qualcuno trattenesse il respiro. Una presenza, quasi tangibile, ma calda, come una carezza lieve.

«Chi sei?», domandò con fermezza, senza paura, come se sapesse che nessun male le sarebbe stato fatto.

Nessuna risposta. Solo un lieve scricchiolio del pavimento, come se qualcuno avesse fatto un passo per poi fermarsi.

Il giorno dopo, sparì il vecchio quaderno dove annotava ricette e numeri di telefono ormai inutili. E quella sera, tornando dal balcone, trovò sul tavolo una cartolina. Senza indirizzo, senza firma. Solo due parole, scarabocchiate in una scrittura incerta: *«Sono qui»*.

Da quel giorno, vissero insieme. Lei, nelle ombre, negli angoli, nel fremito delle tende. Giovanna, nella luce del giorno, nel borbottio del bollitore, nel tintinnio delle posate. Non parlavano. Ma un giorno, aprendo l’armadio, trovò tutte le cose scomparse. Piegate con cura, pulite, come se qualcuno le avesse custodite con premura.

E allora capì. Non era un’estranea. Era lei. Quella che aveva dimenticato, cancellata piano piano – quando il marito era morto, quando la figlia se n’era andata, quando i giorni erano diventati tutti uguali. Quella che una volta cantava con la chitarra, ballava ascoltando la radio, scriveva poesie su fogli strappati e le nascondeva in un cassetto. Quella che era svanita a poco a poco, con ogni *“dopo”*, con ogni *“non ora”*.

Giovanna prese la sciarpa, se la mise sulle spalle. Profumava di menta e di tempo passato. Uscì sul balcone. Accese una sigaretta – la prima dopo dieci anni. Il fumo saliva nel cielo, portando via con sé il peso, la solitudine, il rigore estraneo.

In basso, la neve cadeva. Leggera, quasi impalpabile. Nel suo riflesso brillavano le luci della città, come se il mondo stesso le sussurrasse: *«Ti stavo aspettando»*.

*Dove ti sei nascosta?*, pensò. *Eccoti. Trovata.*

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

eighteen − five =

Dove ti nascondi?