Sogno su Ruote: Viaggio tra Dolore e Libertà

**Un Sogno a Quattro Ruote: Un Viaggio tra Dolore e Libertà**

Elena e Marco vivono in un paesino alla periferia di Milano. Per anni hanno risparmiato, rinunciando a piccoli e grandi piaceri, vendendo frutta e verdura del loro orto e accettando lavoretti extra. Li univa un unico obiettivo: comprare un’auto affidabile e partire per il viaggio che sognavano dal giorno del loro matrimonio.

Finalmente il sogno si è avverato! Nel garage, accanto alla vecchia Fiat, ora c’è un fiammante SUV nero. Marco, raggiante di orgoglio, cammina intorno al mezzo, sfiorando la carrozzeria lucida come se temesse di spaventare quella magia. Elena si siede sul sedile del passeggero, chiude gli occhi e immagina gli orizzonti lontani che hanno desiderato vedere insieme per tanto tempo.

L’itinerario era già pronto da anni. Marco ha calcolato il consumo di carburante, segnato le stazioni di servizio e i campeggi, pianificato ogni giorno di viaggio con soste per riposare. Si è occupato di tutto l’aspetto tecnico: la strada, la manutenzione, il percorso. Elena, invece, ha stilato una lista di trattorie e ristoranti dove assaggiare i piatti locali. Ha studiato ogni attrazione lungo il tragitto: dove fermarsi per una foto, cosa vedere, quali musei visitare. La loro preparazione era perfetta, come se si stessero organizzando per la spedizione di una vita.

Non hanno mai parlato del loro progetto né con la figlia né con il genero. Era un desiderio intimo, un segreto condiviso. Perché coinvolgere i figli?

L’estate volgeva al termine. Mancava solo sistemare gli ultimi dettagli nell’orto, e poi sarebbero partiti. Quel giorno chiusero la stagione: spensero l’acqua, riordinarono gli attrezzi, caricarono barattoli di conserve, mele e carote nella vecchia Fiat. I venti chilometri fino a casa scivolarono via in un attimo. Marco canticchiava una canzone, mentre Elena, sorridendo, guardava fuori dal finestrino, anticipando con la mente la loro grande avventura.

All’improvviso, la canzone si interruppe. Marco afferrò il volante con forza, il suo volto impallidì e frenò di colpo. L’auto sbandò, la cintura di sicurezza si strinse sul petto di Elena. Marco si accasciò sul volante. Lei rimase immobile, incapace di reagire, poi, con un urlo, si gettò verso di lui. Non respirava. Le sue dita tremavano, il cuore batteva all’impazzata, la mente rifiutava di comprendere.

Elena chiamò il 118, prese una bottiglia d’acqua, bagnò un fazzoletto e cercò di rianimarlo, ma lui non reagì. I medici, arrivati dopo pochi minuti, confermarono il peggio: Marco era morto. Dissero qualcosa sul cuore, ma le loro parole sparirono nel vuoto che le rimbombava dentro. Arrivarono la polizia, la figlia e il genero. Le rivolsero domande, le espressero condoglianze. La figlia piangeva disperata, mentre Elena restava seduta sul sedile, pietrificata, a guardare mentre portavano via il corpo del suo Marco.

I giorni successivi furono un brusio indistinto. Elena si muoveva come un automa: andava dove la portavano, faceva ciò che le dicevano, annuiva quando necessario. Non versò una lacrima—doveva averle consumate tutte dentro. La sua anima era morta con lui, lasciando solo un guscio vuoto chiuso tra le quattro mura di casa.

Passarono nove giorni, poi quaranta, poi tre mesi. La figlia, Beatrice, veniva a trovarla, le portava la spesa, cercava di farle parlare, ma lei restava muta, distante, come un fantasma.

Un giorno, all’improvviso, Beatrice le chiese:

“Mamma, a chi appartiene quell’auto nel garage?”

“Marco l’ha…” iniziò Elena, ma la voce le si spezzò.

In quell’istante, i ricordi esplosero: l’acquisto dell’auto, la gioia di Marco, le sue risate, i loro piani. Le mancò il fiato, le lacrime le bruciarono gli occhi. Si mise a piangere, per la prima volta da mesi, senza sentire le domande di Beatrice: “Papà l’ha comprata? Quando? Perché non ci avete detto niente? Con quali soldi?”

Le parole si susseguivano, ma Elena non riusciva a rispondere—singhiozzava, finalmente consapevole che non avrebbe mai visto di nuovo il suo sorriso, sentito la sua voce, toccato il calore delle sue mani.

Piangendo, si addormentò all’alba, e al risveglio capì: doveva continuare a vivere. Senza di lui. Sarebbe stato difficile, quasi impossibile, ma doveva farlo.

Con l’arrivo della primavera, Elena decise di tornare all’orto. Forse per abitudine, forse per trovare qualcosa che tenesse a bada il vuoto. Nello zaino di Marco—quello che non aveva toccato da quel giorno—trovò una cartellina logora, piena dei loro sogni.

L’aprì. Il cuore le martellò, poi si strinse in un nodo. “Che sogno è, ora? Non esiste più!” pensò, richiudendola di colpo. Voleva metterla via, ma invece la infilò nella borsa.

Arrivò all’orto in treno. Il genero le aveva offerto di usare il SUV, ma il lavoro lo teneva occupato, e Elena non gliene faceva una colpa. Capiva: i giovani hanno la loro vita. E l’auto? Che restasse a loro. A lei non serviva più.

Una sera, seduta nel silenzio della casa, ricordò la cartellina. La tirò fuori, l’aprì—e subito la richiuse. Faceva troppo male. Ma il giorno dopo non resistette, iniziò a sfogliarla. Poi a leggere. E così ogni sera. Rileggeva gli appunti di Marco, le sue annotazioni meticolose su percorsi, stazioni di servizio, campeggi. Ogni giorno il dolore si attenuava, e nel suo cuore si accendeva una fiammella. Le sembrava di averlo accanto, ancora insieme a pianificare il loro viaggio.

Alla fine dell’estate, Elena si sentì rinascere. Sapeva cosa fare. Tornata in città, si iscrisse a un corso di guida—non uno qualunque, ma uno per situazioni estreme. Viaggiare da sola era una cosa seria. L’istruttore la guardava scettico, ma lei, tenace come una ragazzina, imparava con determinazione, stringendo il volante finché le mani non le tremavano dallo sforzo.

E ce l’aveva fatta! La patente era nella sua tasca.

Una sera, Elena andò a casa di Beatrice. Il SUV era parcheggiato davanti al portone. Lo accarezzò, notando qualche graffio, quasi compatendolo. Chiamò la figlia, le chiese di portarle i documenti e le chiavi. Controllò i fogli, prese le chiavi e si sedette al posto di guida.

Toccò con delicatezza il volante, accese il motore, posò la mano sul cambio. Sotto gli sguardi increduli di Beatrice e del genero, uscì dal cortile. Tre giorni dopo, varcò il confine, diretta verso la prima meta che avevano scelto insieme.

Con la figlia avrebbe parlato più tardi. Beatrice avrebbe capito.

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