15 novembre. Un diario di rinascita
Quella sera umida di novembre, a Rivoli, dove l’odore di umido e foglie marce riempiva l’aria, Marco si fermò davanti alla vetrina di un vecchio negozio di antiquariato. Gli orologi, piccoli e delicati, con quadranti consumati e lancette sottili, sembravano sussurrargli il passato. Gli ricordavano suo nonno, i pomeriggi in cui, ancora bambino, osservava incantato gli ingranaggi muoversi sotto la lente d’ingrandimento. Marco fissò le lancette che avanzavano lentamente e capì all’improvviso: non voleva affrettarsi. Non ora. Non verso la fine di diciotto anni di vita. Dentro di sé, aveva già deciso, ma fuori c’erano solo pioggia grigia, pozzanghere e un freddo che gli faceva male al cuore.
Entrò in tribunale con quindici minuti di ritardo. La sua quasi ex moglie, Beatrice, sedeva vicino alla finestra, le mani appoggiate su una cartella piena di documenti. Il suo volto era calmo, ma le dita che sfioravano nervosamente l’angolo di un foglio tradiscevano la tensione. Non lo guardò, non sembrava arrabbiata—aspettava solo, come se non fosse la fine della loro storia, ma un banale appuntamento di lavoro. Marco ricordò quando, anni prima, avevano assemblato insieme i mobili del loro primo appartamento: litigavano, ridevano, bevevano tè per terra. Quel ricordo lo trafisse come un vetro rotto, e lo ingoiò senza trovare parole.
La giudice fu rapida come il vento fuori dalla finestra. Domande, firme, timbri—tutto finì in meno di dieci minuti. Come se i loro anni insieme—vacanze, litigi, serate sotto quella vecchia coperta—potessero essere ridotti a una formalità.
Sulla porta, Beatrice disse:
—Non dimenticare di far autenticare i documenti dal notaio. Oggi.
Marco annuì. Avrebbe voluto dire «scusa», ma non sapeva per cosa. Avrebbe voluto dire «grazie», ma non trovò il motivo. Allora mormorò:
—Sei…bellissima.
Lei lo guardò come se fosse uno sconosciuto, e se ne andò. I suoi passi si persero nel rumore della pioggia, mentre il leggero profumo del suo profumo rimase sospeso nell’aria, come un fantasma del loro passato.
Marco rimase immobile nel corridoio vuoto. Da qualche parte una porta sbatté, qualcuno tossì, qualcuno parlò al telefono. E lui si chiese: «È la fine? O l’inizio?»
Invece di tornare a casa, andò nella bottega del nonno, in un vecchio angolo di Rivoli dove il tempo sembrava essersi fermato. La piccola stanza dal soffitto basso odorava di olio e polvere. Gli scaffali erano pieni di barattoli di viti, scatole di molle e un vecchio manifesto sull’orologeria. La chiave della bottega era ancora nel suo portafoglio logoro, nella tasca più consumata. Marco aprì la porta, accese la luce. La lampada sfarfallò, poi si illuminò, inondando tutto di quella luce gialla che da bambino gli faceva bruciare gli occhi.
L’orologio a muro ticchettava, come se custodisse il ritmo della sua vita. Marco si sedette al vecchio tavolo, passò le dita sulla superficie ruvida, sentendo ogni graffio, ogni scheggia. Le sue mani tremavano—non per la paura, ma per la strana sensazione di aver ritrovato uno scopo. Prese dal cassetto un vecchio orologio che non aveva mai riparato anni prima. Lo smontò, dispose gli ingranaggi sul panno, respirando profondamente. Lo rimontò. Gli diede corda. Un tic. Un altro tic. E all’improvviso, il tempo sembrò sussurrargli: «Sono ancora qui».
Il giorno dopo, tornò. E ancora. Tre settimane dopo, cambiò la vecchia insegna con una nuova: «Laboratorio aperto». Il cartello era fissato con uno scotch storto, ma sembrava sicuro, come se conoscesse il suo posto.
La gente iniziò a venire da lui. Donne anziane portavano orologi antichi con speranza negli occhi. Uomini con meccanismi costosi arrivavano smarriti, come se quel guasto avesse sconvolto il loro mondo. Ragazzini proponevano idee strane: «Possiamo fare un quadrante luminoso?» Marco annuiva, prendeva tra le mani i loro tesori e li riparava. Rimaneva silenzioso. Ascoltava. A volte, le persone non parlavano degli orologi, ma delle loro vite—divorzi, perdite, ciò che si era rotto dentro. E lui inseriva una vite, e il meccanismo tornava a vivere.
Un giorno arrivò una ragazza—esile, capelli castani e un sorriso leggero. Si chiamava Ginevra. Portò l’orologio di suo padre—il quadrante graffiato, le lancette immobili. Guardò Marco con dubbi, come se temesse che non ci fosse più nulla da fare.
—Ce la fa?—chiese piano.
Lui annuì. Lavorò a lungo, con pause, come se ascoltasse non solo il meccanismo, ma anche il suo dolore silenzioso.
Un mese dopo, Ginevra tornò. Senza l’orologio, ma con una borsa contenente tè caldo e una torta fatta in casa. Poi venne di nuovo, senza motivo. Una volta, mentre sistemavano insieme una scatola di viti, gli disse:
—Non aggiusti solo orologi. Ripari le persone. Un pezzo alla volta. Senza che se ne accorgano.
Marco sorrise—per la prima volta non per cortesia, ma perché non poteva fare altrimenti. Il suo cuore, congelato quel giorno grigio in tribunale, aveva iniziato a sciogliersi.
Un anno dopo, quell’orologio che aveva riparato per Ginevra ticchettava nel loro appartamento, accanto ai libri, un vaso di margherite secche e una foto della loro passeggiata lungo il fiume. Marco era ancora in ritardo—al mercato per la spesa, al treno, alle serate con gli amici, alla nuova vita che ora sembrava calda e vivace.
Quando Ginevra chiedeva: «Dove sei stato?», lui rispondeva:
—Dove il tempo torna in vita. Dove non lo perdi, ma lo ritrovi.
E bastava. Perché ora il tempo non scorreva solo negli orologi. Camminava accanto a loro, nei loro passi, nelle risate, nel viaggio che facevano insieme.