Le ho detto: ‘Se avessi un briciolo di coscienza, laveresti i piatti almeno una volta’. E mio figlio mi ha accusato di distruggere la sua famiglia.

«Le ho detto: se avessi almeno un briciolo di coscienza, laveresti i piatti una volta tanto». E mio figlio mi ha accusato di distruggere la sua famiglia.

Avevo solo 22 anni quando mio marito ci ha lasciati. Tra le braccia, un figlio di due anni. Paolo. Evidentemente, il peso della famiglia gli pesava troppo: lavorare, portare a casa i soldi, pensare a qualcuno oltre a sé stesso. Lui voleva altro: una vita facile, divertimenti, donne più giovani. E se ne è andato. Una sera, semplicemente, non è tornato a casa. Non importa che marito fosse: insieme, in qualche modo, era più semplice. E poi, tutto il peso è ricaduto su di me.

Paolo è andato all’asilo, io al lavoro. Giorno dopo giorno. A volte tornavo a casa stremata. Ma la casa era sempre in ordine, la cena pronta, mio figlio pulito, sazio, con i vestiti stirati. Così mi aveva insegnato mia madre. La nostra generazione era diversa.

Ammetto che ho viziato Paolo. A ventisette anni non sapeva nemmeno friggere due patate. Ho fatto tutto al posto suo. Poi si è sposato. Ero persino contenta: finalmente sarebbe stata sua moglie a occuparsi di lui. Io avrei avuto tempo per me. Magari un lavoretto in più, o semplicemente riposarmi dopo tutti quegli anni. Ma non è andata così.

Paolo mi disse: «Mamma, io e Caterina staremo da te per un po’, finché non ci sistemiamo». E io ho accettato. Pensavo: giovani, che vivano pure. Caterina avrebbe cucinato, lavato, pulito, come si conviene a una moglie. Avrei sopportato. Invece è successo tutto il contrario.

Caterina era… per dirla con gentilezza, poco incline alle faccende domestiche. Non puliva, non lavava, non stirava né i suoi vestiti né quelli di Paolo. Non rimetteva a posto neanche una tazza. Per tre mesi ho vissuto come in una pensione: mancava solo il turno per cucinare. Preparavo da mangiare per tutti, pulivo, lavavo, buttavo la spazzatura. E loro? Caterina passava le giornate attaccata al telefono o a passeggio con le amiche. Paolo lavorava, lei no.

Quando tornavo a casa dopo il turno, trovavo il caos. Piatti sporchi nel lavandino, briciole sul tavolo, capelli per terra. Il frigo era vuoto. Nessun minestrone, nessun sugo, nemmeno un uovo fritto. Tutto ricadeva su di me: andare al supermercato, fare la spesa, cucinare, e poi anche pulire dopo di loro.

E così per settimane. Una volta, Caterina è entrata in cucina mentre lavavo i piatti e ha posato con calma un piatto sporco accanto al lavello. Vecchio, con avanzi di cibo e moscerini. Chissà da quanti giorni era nella sua stanza. Non ce l’ho fatta.

Le ho detto: «Caterina, se hai almeno un briciolo di coscienza, lava i piatti. Una volta tanto. Non sono la tua domestica. Io lavoro, mi stanco. Sei giovane, forte, una donna adulta. Cos’è così difficile, prendere un piatto e lavarlo?»

E sapete cosa ha fatto? Il giorno dopo, se ne sono andati. Hanno affittato un appartamento e sono partiti senza salutare. E Paolo, dopo, mi ha detto: «Stai distruggendo la mia famiglia. Niente ti va bene. Sei sempre pronta a criticare». Io? Io, che li ho sfamati, pulito dopo di loro, lavato, sopportato la loro pigrizia per mesi?

Ora non mi immischio più. A casa mia è tutto pulito e tranquillo. Mi prendo cura solo di me stessa. Che gioia tornare e non trovare pentole bruciate sul fornello. I giovani d’oggi non sanno cosa sia la fatica. Vogliono tutto servito su un piatto d’argento. E il rispetto? Neppure un grammo.

Oggi ho imparato una cosa: a volte, lasciare andare è l’unico modo per trovare la pace.

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